Striscia di Gaza evacuazione
La Striscia di Gaza, bombardata dall'esercito israeliano da sabato 7 ottobre

Striscia di Gaza: l’evacuazione è impossibile

Le forze israeliane hanno dato l'ordine di evacuazione dei civili dal nord della Striscia di Gaza. Un'impresa impossibile perché riguarda soprattutto donne, bambini e anziani su strade che non ci sono più, verso un valico che si affaccia sul nulla. Ci racconta tutto We World che lancia l'appello: l'ordine va revocato

Le forze militari e politiche israeliane hanno ordinato l’evacuazione dei civili palestinesi che vivono nel nord della Striscia di Gaza entro 24 ore. Significherebbe spostare un milione e 100mila persone in poche ore: impossibile, oltre a essere un crimine di guerra secondo il Diritto Internazionale Umanitario. 

L’ordine di evacuazione dal nord della Striscia di Gaza

«L’ordine di evacuazione deve essere revocato. il governo italiano, l’Unione Europea e le altre nazioni occidentali e arabe devono chiedere l’immediata revoca dell’ordine di evacuazione. Vorrebbe dire far muovere soprattutto donne, bambini e anziani su strade che per la maggior parte non esistono più, verso il valico con l’Egitto che però al momento è chiuso». Mentre scriviamo la situazione è questa, come ci racconta Dina Taddia, direttrice generale di We World, organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo che lavora a Gaza e in Cisgiordania da oltre 30 anni e che al momento ha diverse persone lì, a gaza, che rischiano loro stesse la vita. «Il passo verso l’Egitto, normalmente controllato dagli israeliani che rilasciano un salvacondotto per cure mediche o esigenze di viaggio, adesso è chiuso e comunque si affaccia sul deserto. Dall’altra parte però non ci sono città raggiungibili a piedi, né acqua né cibo. Il rischio di morire è altissimo, per chi ci arriva vivo».

Sopravvivere nella Striscia di Gaza è già difficile

La sopravvivenza infatti a Gaza è già gravemente compromessa dalla mancanza di acqua ed elettricità. «La striscia di Gaza è una zona molto piccola, un lembo di terra a ridosso del mare largo 14 chilometri e 5 nel punto più stretto. In questo lembo sabbioso vivono 2milioni e 200mila persone, la metà figli e nipoti dei palestinesi che si ritirarono qui nel 1948. Si tratta di una città nata dove prima c’erano le tende, cresciuta senza un piano regolatore e senza fognature, dove la disoccupazione supera il 50 per cento» racconta Dina taddia. «L’acqua e l’energia elettrica ormai scarseggiano: l’unica centrale è stata chiusa e funzionano solo i generatori. L’energia serve a far funzionare i desalinizzatori per estrarre acqua potabile ma ormai le riserve sono salate. Serve anche agli ospedali, per chi afa dialisi, per i bambini in incubatrice, per le operazioni, per i frigoriferi, dove si conservano i medicinali, che così scadono perché si interrompe la catena del freddo. Il rischio epidemie è alto».

Il valico verso sud si apre sul deserto egiziano

In genere l’esercito israeliano manda un sms per allertare i civili di spostarsi. «In questo caso i palestinesi sono stati avvisati di lasciare le zone del nord, le più bombardate, per andare verso sud. Ma a sud non ci sono rifugi e soprattutto chi lascia le case, sa che non le ritroverà, com’è successo nel 1948, quando i profughi si spostarono appunto verso Gaza. La storia rischia di ripetersi, un’altra paura che si somma a quella di intraprendere un viaggio senza speranza, senza mezzi, senza strade, verso un passo che si apre sul nulla: il deserto dell’Egitto». Egitto che, dopo cinque giorni dall’inizio del bombardamento, ancora non ha rilasciato alcuna dichiarazione. Sono già 400mila le persone in transito, in attesa di notizie, su un lembo di terra lungo come la distanza tra Milano e Bergamo. 

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