L’annuncio dell’attacco americano in Iran è arrivato su X. L’ho letto prima ancora di uscire dal letto, ma non mi ci sono concentrata nemmeno per dieci minuti perché mi sono distratta per inveire contro un altro post su Instagram. A fine giornata, ripensandoci, l’ho trovata una fotografia inquietante di quest’era in cui la guerra è solo un altro contenuto, nemmeno quello che più ci cattura. La voglia di lottare – o persino preoccuparsi – è pari a zero. A meno di trent’anni come a cinquanta, siamo già abituati a tutto. E quel che è peggio è che ci siamo rassegnati, d’altronde che altro possiamo fare?

Se non vale la pena di impegnarsi, non resta che cedere

Solo un giorno prima, io e Sofia ci chiedevamo la stessa cosa davanti a una bibita fresca: dopo mesi lontane, ci siamo incontrate e aggiornate. Ne è venuto fuori un quadro deprimente: di cinque amiche laureate nella stessa facoltà, con il massimo dei voti, Erasmus+, tutto finito “in tempo” per la prima sessione, solo in due sono rimaste a Milano. Solo una può considerarsi indipendente, e siamo in meno della metà a fare il lavoro per cui abbiamo studiato.

C’è solo una cosa che accomuna tutte, ed è quel senso di fallimento che sentiamo a fine giornata: per essere andate via, per essere rimaste o per continuare a provarci senza essere soddisfatte. Un pensiero che a lungo andare logora, perché a quella domanda non sappiamo trovare una risposta: cosa possiamo fare ancora? Cosa avremmo dovuto fare?

Come mi conferma la dottoressa Federica Fiammetta Ferrajoli, psicologa e sessuologa di stampo analitico che si rivolge ogni giorno a una community di oltre 40mila followers, cedere alla rassegnazione oggi è quasi naturale. «Lo vedo sia in clinica che confrontandomi con la mia community: viviamo in un mondo che promette molto e restituisce molto poco e così genera stanchezza», spiega l’esperta. «Una specie di ‘postura esistenziale’ che colpisce tutti gli ambiti, perché deriva da un mix di situazioni diverse, dalla precarietà economica alla crisi ambientale, le guerre e la disillusione a livello politico».

La rassegnazione è ovunque, al lavoro come in amore

L’attivismo non paga, non paga l’impegno, non paga il lavoro e non paga la passione. Tanto vale non fare più niente, sembra dirci il mondo intero, e non stupisce che cominciamo tutti ad ascoltarlo. Secondo la BBC, in Regno Unito solo quest’anno un dipendente su cinque pratica il quiet quitting, facendo sempre meno in modo da sbarcare il lunario senza sprecare energie. Sui social, dopo anni passati di dating app in dating app, si parla di dating burnout e quitting. Uno studio del Pew Research Center di due anni fa mostra dati allarmanti: se nel 2019 il 38% delle donne single era alla ricerca dell’amore, in meno di due anni si è scesi al 35% (con un corrispettivo maschile che va dal 61% al 50%).

Questa deriva preoccupante è stata intuita con qualche anno di anticipo da Otessa Mosfegh, autrice bestseller de Il mio anno di riposo e oblio. Nel romanzo, Mosfegh racconta di una donna che un giorno decide di prendersi una pausa dalla vita e mettersi a dormire. Con la determinazione a smettere di sentire e l’aiuto di narcotici, trascorre lunghissimi mesi in uno stato di oblio quasi totale.

Era questo il bello di dormire, la realtà si distaccava e mi arrivava nella mente in modo casuale come un film o un sogno», recita un passo.

Era facile ignorare quello che non mi riguardava. I lavoratori della metropolitana in sciopero. Un uragano che era passato di lì. Non importava. Sarebbero potuti arrivare gli extraterrestri, un’invasione di locuste, e io me ne sarei sì accorta, ma non mi avrebbe dato nessuna preoccupazione.

Tra rassegnazione “sana” e pericolosa

Quella protagonista volutamente senza nome non è che una metafora caricaturale, ma oggi la sua storia ci sembra quasi rassicurante, addirittura un sogno. «La rassegnazione può essere intesa anche come un meccanismo di difesa. In questo senso è funzionale perché ci permette di non avere aspettative e così proteggerci dalle delusioni», spiega sempre la dottoressa Ferrajoli. «Il momento in cui dobbiamo capire che qualcosa non va, però, è quando smettiamo di essere interessati al mondo». Quando smettiamo di incuriosirci nei confronti di quello che succede intorno a noi, come la protagonista addormentata del romanzo, che ignora uragani e lavori in corso, cominciamo a rischiare troppo. E allora, per ritrovare la motivazione, dobbiamo fare un passo indietro.

E allora, cosa fare? La guida anti-rassegnazione

«Prima di tutto, dobbiamo chiamare le cose con il loro nome: non dirci che siamo pigri o indifferenti, ma riconoscere la rassegnazione per quella che è», continua la psicologa. Dunque, serve mettere in ordine i pensieri e le idee, ri-educarci alla scelta, azione che oggi ci mette sempre più in difficoltà. «Non possiamo salvare il mondo ogni giorno, ma è utile capire cosa ci sembra più utile e darsi dei piccoli obiettivi per riaccendere l’energia, sia sul fronte individuale che su quello della collettività».

Un altro dei motivi per cui la rassegnazione ci “tenta” ogni giorno, è che è legittimata dalla società. A differenza di sentimenti come la rabbia e l’ambizione, considerate generalmente egoistiche, la rassegnazione è vista come un atteggiamento positivo. Lo conferma Oxford Languages, uno dei dizionari più autorevoli e accessibili online, che parla di rassegnazione come di un valore nobile, «eroico».

Ci vogliono rassegnati, non lo saremo mai

Non è un caso: anni fa Lo Stato Sociale, un gruppo bolognese nato in seno alle manifestazioni studentesche e agli spazi pubblici, cantava: «Ogni volta che scegli, tu scegli il tipo di schiavo che non sarai». Se la determinazione, le opinioni, e le ambizioni sono azione e rottura, la rassegnazione è invece stasi, accondiscendenza. È un sentimento benvisto perché ci tiene fermi, previene tanto le rivoluzioni quanto il cambiamento. «Una delle immagini che mi vengono in mente quando cerco di spiegare a pazienti la rassegnazione è quella di una sorta di ‘rabbia congelata’», spiega Ferrajoli. «Perché arrabbiarsi e coltivare la rabbia come spazio sano significa tenere vivo l’interesse. Quando ci lamentiamo o ci arrabbiamo, insistiamo perché le cose cambino, e ci facciamo motori delle trasformazioni». Se non sappiamo da dove partire, quindi, cominciamo a lamentarci. Guardiamo in faccia quello che non ci piace, arrabbiamoci, non mettiamo a tacere il nostro malessere. Se c’è una cosa su cui siamo davvero tutti d’accordo, rassegnati o meno, è che un bel cambio di rotta ci vuole proprio.