colonie estive

Che fine hanno fatto le colonie estive?

L’apparizione del mare all’orizzonte, le regole ferree, le notti in camerata, i primi bullismi e i primi amori... Sono immagini impresse nella memoria di chi era bambino negli anni ’50 e ’60. Di quel mondo restano edifici fatiscenti, ma ora un libro ne ripercorre la storia, regalandoci uno sguardo nuovo sull’Italia che fu

Oggi li chiamano campus, centri estivi, summer camp e possono arrivare a costare anche 2.160 euro, come denuncia Altroconsumo in un’inchiesta sulle offerte sportive e ricreative a Milano e Roma. Per le generazioni nate fino agli anni ’70, la chiusura della scuola a giugno spesso coincideva invece con l’inizio di una minaccia nemmeno tanto velata: l’alternativa invernale al “ti mando in collegio” si trasformava nel classico estivo “ti mando in colonia!”. Dai primi del Novecento le colonie vennero riconvertite da sanatori per la cura della scrofolosi (più nota come tisi) a strutture di vacanza per l’educazione e l’assistenza dei piccoli fasci. Nel 1942 il regime ne dichiarava 5.805, in grado di ospitare 940.615 minori dai 6 ai 13 anni. Nel dopoguerra la gestione passa agli enti cattolici che d’estate accolgono anche 1.800.000 bambini e bambine.

Che fine hanno fatto le colonie estive?

Abbandonate oggi all’incuria e all’archeologia balneare, al centro di dibattiti comunali sulla necessità di abbatterle o riconvertirle (quelle disegnate dagli archistar dell’epoca sono già state assaltate dai big del turismo e trasformate in hotel di lusso), le colonie estive ormai ridotte a scheletri fatiscenti racchiudono in realtà ricordi, emozioni, felicità, traumi e milioni di “prime volte”: la prima vacanza senza i genitori, la prima notte in una camerata, la prima apparizione del mare all’orizzonte, i primi amori e i primi bullismi, le regole ferree, i divieti, le punizioni, il primo distacco. E tanta, tantissima nostalgia rimasta nella memoria dei più anziani e oggetto di progetti creativi dei più giovani, come il regista Riccardo Marchesini che porta in tour per l’Italia il suo documentario Di che colonia sei? in collaborazione con il collettivo Il Palloncino rosso. Un’associazione che ha lanciato l’hashtag #RiutilizzasiColoniaBolognese per far rivivere gli spazi di una delle strutture più grandi di Rimini che nel 1940 ospitava anche 1.000 minori del capoluogo emiliano.

Il libro che ne racconta la storia

Per conoscere e capire fino in fondo questi particolari “villaggi vacanze” per bambini bisogna tuttavia unire molte coordinate, come ha fatto lo storico romagnolo Stefano Pivato nel saggio Andare per colonie estive (Il Mulino). Il libro ci guida su e giù per l’Italia alla scoperta di un patrimonio architettonico unico e della nascita dei bambini come soggetti sociali. «Dalla fine dell’Ottocento, in seguito a nuove legislazioni sul lavoro minorile e con le guerre mondiali, viene alla luce il dramma della fame e della miseria di bambini che non erano stati mai così tanti e così indigenti: sono i figli di soldati tornati dal fronte ma rimasti invalidi e poverissimi» spiega Stefano Pivato. «Se con la filosofia positivista ottocentesca si scoprono le virtù del sanatorio marino per curare l’Italia e l’infanzia malata, fra gli anni ’20 e ’30 il fascismo ne fa invece uno strumento di consenso: viene data mano libera ai più grandi architetti per erigere edifici monumentali che devono dare alle famiglie l’idea di quanto il regime provveda alla tutela dei figli. Deve passare l’illusione per i poveri di contare come i ricchi». Un esempio? Vittorio Bonadè Bottino è l’architetto che disegna il Lingotto della Fiat a Torino e che a Sestriere fa costruire un albergo a forma di torre per gli industriali che vogliono sciare. A Marina di Massa Bonadè Bottino replica la stessa torre, la chiama Balilla e ci mette dentro una colonia per i dipendenti della casa automobilistica degli Agnelli: così anche a loro si regala il sogno di contare come i ricchi padroni.

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Colonie estive e l’architettura del regime fascista

«La torre Balilla, alta 52 metri per 17 piani, aveva una camerata elicoidale unica senza interruzioni, tanto che i piedini dei letti erano più bassi e più alti a seconda dell’inclinazione del pavimento» racconta Pivato. «Si dormiva in mille e nella mensa si mangiava in tremila: era l’impronta “dell’armonico collettivo” fascista dove si cresceva tutti insieme, perché il gigantismo del regime doveva sorprendere ed educare. Le colonie come strumenti di consenso nascevano nelle zone di origine dei gradi ras, quindi Mussolini ne fece erigere centinaia in Romagna, Costanzo Ciano a Livorno creò le “7 sorelle” diventate oggi residence a cinque stelle, Roberto Farinacci inaugurò addirittura 140 colonie in una provincia senza il mare, Cremona, ispirate alle forme delle barche. A Cattolica in 9 mesi venne costruito un maxicomplesso chiamato Le Navi, oggi riconvertito in Acquario della città».

Il boom economico e la fine delle colonie

A causare il declino delle colonie fu il boom economico. Con la fine del regime, il patrimonio edilizio passò in mano al Vaticano e poi alle associazioni cattoliche, che cambiarono radicalmente approccio pedagogico: «Queste vacanze non dovevano più “allineare” ma riproporre un concetto di educazione familiare, quindi gruppi più piccoli e camerate con 20 letti al massimo, niente più divise e alzabandiera, niente sport al massimo i girotondi e le preghiere» spiega Pivato. «Le nuove strutture riflettevano l’architettura del periodo più pauperista e con materiali di fortuna: è l’edilizia che porterà allo sfruttamento delle coste, soprattutto quella adriatica, dove nasceranno poi migliaia di pensioncine familiari». Una intera economia locale scoprì il “mercato dell’infanzia” e fu pronta a riconvertirsi quando la colonia iniziò a passare di moda: «Alla fine degli anni ’60 nacque il turismo di massa, il lavoro sicuro portò maggiore benessere, poi la 600, poi le autostrade e la possibilità di passare le vacanze tutti insieme in famiglia. Era la prima volta nella storia d’Italia che accadeva». E anche l’evento che segnò il tramonto dell’epoca “coloniale”.

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