Morire di classe – Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin
Le foto di questo post sono tratte dal libro Morire di classe – Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin (il Saggiatore)

Quel “matto” di Franco Basaglia

Umano, rigoroso, visionario. Negli anni ’70 Franco Basaglia aprì le porte dei manicomi e ispirò la legge che li chiuse per sempre. Cosa resta oggi della sua eredità? A un secolo dalla nascita del grande psichiatra, lo abbiamo chiesto a chi ha creduto nel suo progetto

«La diversità basta accettarla. Anche quando è talmente tangibile che non si può far finta che non esista, come nel caso dei matti». A scrivere queste parole nel libro Le nuvole di Picasso (Feltrinelli) è Alberta Basaglia, figlia di quel Franco di cui quest’anno ricorre il centenario dalla nascita (era nato a Venezia l’11 marzo del 1924 e qui è morto il 29 agosto del 1980). Lo psichiatra, che sarà per sempre ricordato perché negli anni ’70 aprì le porte dei manicomi e ispirò la legge 180 che nel 1978 li chiuse, era un uomo visionario e rivoluzionario: mise in pratica un cambiamento sociale e culturale, insegnò ad accettare le diversità, a restituire ai “matti” umanità e dignità, a considerarli non per la loro malattia ma prima di tutto come persone che soffrono.

Morire di classe – Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin

Nel 1978 Franco Basaglia ispirò la Legge che chiuse i manicomi

Da Padova, dove aveva intrapreso la carriera accademica, Franco Basaglia arrivò all’ospedale psichiatrico di Gorizia nel 1961. L’impatto fu durissimo: trovò pazienti seminudi, legati ai termosifoni o ai letti, radunati in stanzoni o nei cortili dove trascorrevano tutto il giorno a ciondolare, alienati dall’elettroshock, lasciati soli con i propri fantasmi. Per prima cosa fece mettere i comodini accanto ai letti, in modo che le persone potessero riporvi le proprie cose, poi le fece vestire e si mise in ascolto delle loro storie e delle loro sofferenze. «Un rispetto prima inesistente per il malato. Se vedeva che ci si occupava di lui, che era considerato degno di attenzione, di cura, avrebbe cominciato ad avere maggior rispetto per se stesso, una maggiore fiducia in sé e negli altri» scrive Franca Ongaro, la moglie di Franco Basaglia, anche lei impegnata nella battaglia per abbattere i muri dell’istituzione ospedaliera. Dall’esperienza di Gorizia, nel 1968 nacque un libro, L’istituzione negata (appena ripubblicato, insieme agli altri volumi di Franco Basaglia, da Baldini+Castoldi), che ebbe un successo inaspettato anche all’estero: parlava del manicomio e del lavoro per smontarlo, dei ricoverati, dei dottori e degli infermieri, delle assemblee aperte per rendere paritario il rapporto tra medico e paziente. Dopo Gorizia, Basaglia andò a dirigere l’ospedale di Colorno, in provincia di Parma, ma fu a Trieste che fondò Psichiatria Democratica e mise in atto il cambiamento, tanto che l’ospedale fu riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità come esperienza pilota nella ricerca psichiatrica.

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A Trieste negli anni ’70 ci fu la rivoluzione

A Trieste, nel 1971, c’era anche Giovanna Del Giudice, oggi presidente della Conferenza per la Salute mentale nel mondo “Franco Basaglia” (confbasaglia.org). «Avevo letto i suoi libri, mi ero laureata in Psichiatria e l’avevo cercato per poter lavorare con lui. Basaglia aveva un progetto molto chiaro, la “distruzione” dell’ospedale psichiatrico, e perciò aveva deciso di lavorare con giovani medici non ancora contaminati dalla psichiatria tradizionale» mi racconta. «La nostra scuola è stata il manicomio che si decostruiva, che si trasformava. Il rapporto di potere curante-curato veniva messo in discussione, la libertà e la reciprocità della relazione erano le condizioni di base per un rapporto terapeutico. Furono anni durissimi. Ogni mattina alle 7,30 Basaglia ci convocava per interrogarci sulla psichiatria tradizionale, perché diceva che per decostruire bisognava conoscere». Grazie a lui, mi spiega, ha imparato che «non esisteva un “noi” e un “loro”, ma che eravamo tutti uomini e donne di questo Pianeta, alcuni con una sofferenza superiore alla nostra e condizioni di vita precarie e complicate». Aprire le porte voleva dire rischiare, faticare, assumersi le responsabilità, prendersi carico. «Ma sono i malati che hanno girato la chiave della porta quando sono diventati soggetti» dice.

Morire di classe – Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin

Così lo ricorda la figlia Alberta

A casa Basaglia, racconta la figlia Alberta, venivano i malati usciti da quelle porte: Velio che aiutava a pitturare, Carletto che senza più catene e camicia di forza aveva deciso di stare nella portineria dell’ospedale, la signora Pierina che «le alternative al manicomio, le comunità, le case famiglia, non le accettava». Nel libro racconta delle notti passate a sentire la madre che batteva sulla macchina per scrivere, le conversazioni tra i genitori. Un quotidiano dove il manicomio era la normalità e «non era facile ritrovarsi per le mani un papà diventato improvvisamente una rockstar». Alberta ha studiato Psicologia, ha lavorato a lungo contro le discriminazioni, si è occupata di bambini e violenza sulle donne, e oggi gestisce l’Archivio Basaglia. «Mio padre ha dimostrato che le persone con problemi di salute mentale possono vivere in mezzo al resto del mondo purché ci siano servizi adeguati». L’ascolto dell’altro è fondamentale, mi ribadisce anche lei, «perché ognuno ha una storia alle spalle». E quando le chiedo qual è stato il più grande insegnamento che le ha lasciato suo padre, mi risponde: «Che per cambiare il mondo bisogna decidere di farlo tutti insieme».

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Carla Cerati

«Fu una bussola che indicò una strada praticabile» dice di Franco Basaglia lo pischiatra Massimo Ammaniti

Massimo Ammaniti, neuropsichiatra e professore di Psicopatologia dello sviluppo alla Sapienza di Roma, ha incontrato le istituzioni psichiatriche, appena laureato, in un reparto infantile cosiddetto degli “irrecuperabili”, come racconta nel memoir Passoscuro (Bompiani). «Erano luoghi di sofferenza e cronicizzazione, non di cura. Basaglia ha svelato questo inganno e dimostrato che si poteva fare altrimenti, valorizzando la dignità e i diritti civili di persone che erano state emarginate dalla società. È stato un uomo di profonda umanità e di grande impegno culturale e scientifico. Una bussola che ha indicato una strada praticabile. Seguendo l’esempio di Basaglia, nel clima che si era creato in quegli anni, anche io i bambini che avevo trovato seminudi e scalzi nel reparto psichiatrico ho cercato di rivestirli, dare loro un nome, aiutarli a ritrovare una dignità» dice. «In quegli anni c’era un interesse molto vivo, anche nell’opinione pubblica, intorno alla malattia mentale. Oggi purtroppo c’è disinteresse, è un argomento di cui non si parla più».

Chi cura oggi i pazienti psichiatrici?

La legge Basaglia entrò in vigore il 13 maggio del 1978: sancì la chiusura dei manicomi e riformò il sistema di cura per il disagio mentale. È il settore più sacrificato della sanità pubblica. «Oggi per curare il disagio psichiatrico si investe il 2,6-2,7% del Fondo sanitario nazionale, nel resto d’Europa l’8-10%» dice lo psichiatra Massimo Ammaniti. Secondo la legge n. 180 del 1978, la “legge Basaglia”, questi soldi dovrebbero andare alla rete territoriale dei servizi di assistenza psichiatrica che hanno sostituito i manicomi.  Sono i dipartimenti di salute mentale distribuiti in tutta Italia (salute.gov.it/portale/saluteMentale/homeSaluteMentale.jsp) e comprendono i centri per l’assistenza diurna, quelli semiresidenziali o residenziali, i servizi ospedalieri, oltre alle cliniche universitarie e le case di cura private. Ma funzionano a macchia di leopardo, alcuni sono efficienti, altri meno, come emerge dall’inchiesta di Ludovica Jona ed Elisa Storace nel podcast Tutta colpa di Basaglia (Piano P). E dei problemi che ancora oggi deve affrontare un malato psichico racconta anche Valentina Furlanetto in Cento giorni che non torno (Laterza): storie di pazzia, ribellione, libertà.

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