C’è stato un momento preciso in cui mi sono accorta di usarne troppi. Era una mattina di qualche settimana fa: risposte rapide a messaggi, mail da controllare, un buongiorno inviato con un punto esclamativo. Anzi, due. Poi tre. E allora mi sono chiesta: ma sono davvero così entusiasta? Sto comunicando tutto questo? È lì che mi sono accorta che il punto esclamativo era diventato un riflesso automatico più che una scelta. Un modo per farmi sentire presente, calorosa, coinvolta. Forse anche un po’ per riempire il vuoto tra me e gli altri, che non vedono la mia faccia, non sentono la mia intonazione. Ma più lo usavo, più mi sembrava di svuotarlo. E allora mi è venuta una domanda: quanta parte della nostra voce affidiamo oggi a un solo segno? E soprattutto: stiamo urlando nel vuoto? Forse, per capirlo, dobbiamo tornare indietro. Prima delle chat, delle mail, dei messaggi con tre cuori e cinque punti esclamativi. Tornare all’inizio, a quando questo piccolo segno, verticale e deciso, ha cominciato a esistere.

La storia del punto esclamativo

Il punto esclamativo ha una storia antica e non è sempre stato il “tappabuchi” delle emozioni digitali. Un tempo aveva un’altra solennità. Soprattutto, veniva usato con molta, molta più cautela. Nei monasteri medievali, dove si trascrivevano a mano le opere del passato, tra una pergamena e l’altra serviva un modo per dire: «Qui c’è qualcosa di importante». Gli amanuensi scrivevano la parola latina “io”, che significava “evviva”. Col tempo, quella “i” si allungò in una linea verticale, e la “o” si ridusse a un puntino. Era nato il punto esclamativo. Un segno pensato per dire qualcosa con forza, ma allo stesso tempo con grazia. Nel ’300, il poeta Iacopo Alpoleio da Urbisaglia ne rivendicò l’invenzione nel De ratione punctandi, uno dei primi testi dedicati alla punteggiatura. Lo chiamò punctus admirativus – o anche exclamativus – e lo definì un modo per segnalare meraviglia, sorpresa, intensità. Per questo a Urbisaglia, nelle Marche, si tiene a fine giugno la “Festa del Punto Esclamativo”.

Da Manuzio a Manzoni: la punteggiatura incompresa

Ma non tutti erano pronti ad accoglierlo. Per esempio, Aldo Manuzio, celebre editore, si rifiutò di includerlo nelle sue pubblicazioni. Troppo emotivo. Per secoli il punto esclamativo rimase ai margini, usato con parsimonia, e mai nei testi “seri”. Soltanto nel 1797 comparve per la prima volta in una ristampa dell’edizione tedesca della Bibbia tradotta nel ’500 da Martin Lutero. Nel frattempo il suo nome cambiava: per alcuni era il punto affettuoso, per altri il punto ammirativo. Nel dubbio, come si legge sulla Treccani, Alessandro Manzoni li confondeva: interrogativi e esclamativi si alternavano nelle sue bozze come se fossero intercambiabili. E poi venne il ’900. Negli anni ’20 si cominciò a dire che il punto esclamativo fosse troppo “femminile”. Meglio evitarlo, meglio essere sobri, poco rumorosi.

Una carezza con i guanti

Eppure, nonostante tutto, è sopravvissuto. È cambiato, si è adattato. Ma ha portato con sé qualcosa di quel passato: un’eco antica, un bisogno di essere sentiti. «È proprio lì che si annida il nostro uso compulsivo del punto esclamativo» spiega Loredana Cirillo, psicoterapeuta dell’Istituto Minotauro di Milano, facendomi notare una cosa semplice, ma illuminante: non usiamo più il punto fermo. «O meglio, lo evitiamo, perché ci sembra troppo netto, freddo, quasi arrabbiato. Il punto, soprattutto nella comunicazione digitale, è diventato un gesto chiuso. E allora, per non sembrare bruschi o indifferenti, lo sostituiamo con quello esclamativo. Che però non usiamo davvero per esclamare. Ma per affermarci. Per dire: “Ci sono”, “Ti vedo”, “Non sono arrabbiato”». A volte perfino per chiedere attenzione, presenza. Un’ansia gentile che veste i panni dell’entusiasmo. Perché oggi, spiega ancora la psicologa, le emozioni vanno mostrate. «Ma solo quelle giuste. Essere positivi, affettuosi, solari, anche per iscritto, è quasi una forma di performance». E così quello che un tempo era un segno raro e solenne oggi è diventato un modo per tenere aperto un canale, anche quando non abbiamo molto da dire. In pratica, un sorriso scritto in verticale. Però è proprio qui che si nasconde un paradosso emotivo. «Se da un lato il punto esclamativo è il nostro modo di dire “Ci sono”, di affermare vicinanza, partecipazione, calore, dall’altro lo usiamo protetti dallo schermo, in uno spazio dove possiamo controllare tutto, anche le emozioni. È come se volessimo esserci, ma senza esporci. Solo per iscritto» continua Cirillo.

Il punto esclamativo è una carezza con i guanti. Un gesto gentile che ci fa sentire presenti ma al sicuro

Il punto esclamativo nel linguaggio contemporaneo: non più sintassi, ma sentimento

Ed è qui che arriva lo sguardo della linguista a completare il quadro. Perché non è solo una questione psicologica: è anche una trasformazione del linguaggio. «Con l’avvento del digitale, la punteggiatura ha perso parte del suo valore normativo e sintattico, anche perché le frasi sono sempre più brevi e frammentate. Però ha guadagnato qualcosa di nuovo: è diventata emozionale. Non serve più solo a organizzare la frase, ma a esprimere un’intenzione, un sentimento. A far capire a chi sta dall’altra parte – che non ci vede e non ci sente – cosa proviamo» spiega Laura Nacci, divulgatrice linguistica, docente di parità di genere, direttrice della formazione di SheTech, ora in libreria con Parole e potere al lavoro (Tab). Quello che un tempo indicava stupore, invocazione, allegria oggi significa qualcosa di più fragile e prezioso: “Ti sto scrivendo come se ti parlassi.”

Un modo per far sentire la nostra voce, anche senza volume

I giovani e il punto esclamativo: una grammatica emotiva che cambia

C’è però chi non sceglie il punto esclamativo a questo scopo. I più giovani, per esempio, preferiscono gli emoji, le reaction, le pause, i meme. «Un nuovo codice semiotico dove la punteggiatura classica spesso scompare, sostituita da sillabe tagliate, errori grammaticali voluti, immagini che parlano da sole. È come se avessero creato un galateo grammaticale tutto loro, in cui il punto esclamativo è spesso fuori luogo. Troppo carico, troppo invadente» dice la psicologa Loredana Cirillo. «E forse è proprio questo il segnale: mentre noi adulti cerchiamo di essere sentiti con la punteggiatura, loro hanno trovato altri modi per farlo. Più visivi, più liquidi, più silenziosi. Ma non per questo meno reali. Forse il punto esclamativo per loro è già passato. Noi, invece, gli chiediamo ancora di tenerci vicini. E intanto continuiamo a usarlo: spesso, troppo, ovunque. Ma che cosa succederebbe se tornassimo a pensarlo per quello che era? Se gli restituissimo peso, misura, tempo? Su The Atlantic Julie Beck racconta che alla scuola di giornalismo le avevano detto che si può usare un solo punto esclamativo in tutta la carriera. Uno solo. Da giocarsi bene, magari per un titolo epocale, tipo “La guerra è finita!”. Perché nulla di meno lo meriterebbe. E forse sta proprio qui la questione. Forse dovremmo tenerlo lì, in tasca, come una parola che aspetta il suo momento, come caramelle alla menta in fondo alla borsa. Non per riempire il silenzio, ma per sottolineare quello che conta. Non per fare rumore, ma per riconoscere un attimo vero. Quando qualcosa finisce. O quando, finalmente, comincia. Come la pace.

Il festival del punto esclamativo

Il 28 e 29 giugno a Urbisaglia, in provincia di Macerata, c’è la prima edizione della “Festa del Punto Esclamativo”. Due giorni tra arte, poesia e performance dedicati all’inventore del punctus admirativus: Iacopo Alpoleio, poeta del ’300. Il borgo marchigiano si trasformerà in un museo a cielo aperto con installazioni, musica dal vivo, letture poetiche e un menu degustazione ideato dalla Locanda Le Logge. L’obiettivo? Dare il via a una riflessione collettiva su un segno di interpunzione antichissimo ma vitalissimo, capace di gridare, esprimere emozione, far alzare la voce del discorso scritto… E dichiarare stupore e meraviglia.