«Ti andrebbe di interpretare uno stronzo incorreggibile?» gli ha chiesto Steven Soderbergh. E come poteva dire no, Regé-Jean Page, diventato celebre con il ruolo del ruvido Simon Basset, duca di Hastings, nella serie Bridgerton? Così il 37enne attore inglese è entrato nel cast di Black Bag – Doppio Gioco, ora nelle sale, il nuovo, atteso titolo firmato dal regista della saga di Ocean’s, nonché premio Oscar per Traffic:
La trama di “Black Bag – Doppio Gioco”
Il nuovo film di Regé-Jean Page è un’insolita storia di spie centrata su un gruppo di agenti del National Cyber Security Centre di Londra. Sono colleghi ma anche amici, vivono storie d’amore più o meno “top secret”, due di loro sono felicemente sposati. L’atmosfera cambia quando George Woodhouse (Michael Fassbender) viene incaricato di scoprire chi ha tradito l’agenzia rubando una sofisticata tecnologia in grado di distruggere impianti nucleari. I sospettati sono cinque e, oltre alla moglie dello stesso Woodhouse (Cate Blanchett), c’è il colonnello James Stokes, interpretato appunto da Regé-Jean Page. È un tipo sprezzante e probabilmente incapace di amare, come dice Soderbergh e come dimostra la relazione con la psicologa (Naomie Harris) che aiuta gli 007 a reggere il peso di segreti e bugie nel mestiere. «È un thriller psicologico di altissimo livello e per me è stato come giocare a tennis con campioni come Novak Djokovic, Rafael Nadal o Venus Williams» dice Regé-Jean Page.
La carriera di Regé-Jean Page (fin qui)
Lasciata la serie che l’ha trasformato in sex symbol in 84 Paesi del mondo, l’attore ha recitato in The Gray Man con Chris Evans e Ryan Gosling (2022) e con Chris Pine in Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri (2023). Il suo nome è entrato perfino nella rosa dei possibili James Bond dopo Daniel Craig. Ma per lui conta soprattutto fare esperienze il più varie possibile. «Ricordo il periodo passato a Los Angeles correndo alle audizioni» racconta. «Facevo anche tre provini al giorno e saltare da un mondo all’altro è stata per me un’avventura alla Indiana Jones. Mi piace vivere tante vite e portarle con me nella memoria».
Dietro le quinte di Black Bag – Doppio Gioco
In una scena clou il gruppo di agenti e amici è a cena dai Woodhouse, interpretati da Fassbender e Blanchett. Com’è stato lavorare con Steven Soderbergh e un cast corale, dove ci sono anche Pierce Brosnan, Tom Burke e Marisa Abela?
«Super adrenalinico. Intanto Soderbergh ha un modo molto “intimo” di girare, passando da un attore all’altro con la telecamera e cambiando inquadratura per catturare anche momenti ed espressioni inaspettate. Per quella scena in particolare ognuno ha portato qualcosa di nuovo e, se ti distrai per un solo momento, rischi di perdertelo. Tanto più che Black Bag – Doppio Gioco è come un rompicapo, i protagonisti vivono in un mondo di misteri e durante quella cena è molto difficile capire fino a che punto sono sinceri».
Ha parlato con veri 007 per costruire il personaggio di James Stokes?
«Nella mia carriera è successo più volte, ho parlato con gente di quel mondo ed ex spie: è stato un privilegio perché ognuno di loro mi ha permesso di approfondire un aspetto della sua vita. Questo film è diverso da altre spy stories, si concentra più sulla capacità di manipolare gli altri che sull’azione. I protagonisti cercano di mantenere la loro umanità soprattutto nelle relazioni, ma lo spionaggio è uno sport sanguinario. Stokes si considera un eroe anche se gli altri non lo vedono così, e questa contraddizione lo rende interessante».
Regé-Jean Page: «Non sono bravo a dire bugie»
Anche gli agenti segreti recitano, visto che vivono tra le menzogne. Ha trovato qualche somiglianza tra loro e gli attori?
«No, anzi, sono agli antipodi. Le spie mentono per vivere, reprimendo se stessi, mentre gli attori, per definizione, devono essere veri e il più vicino possibile alla natura dei loro personaggi. Quando mi viene dato un copione, il mio lavoro è tirare fuori l’anima e l’autenticità di quella situazione. E per farlo bene bisogna imparare ad aprirsi, a essere vulnerabili, piuttosto che nascondersi al pubblico. Alla fine gli attori non sono bravi a dire bugie».
L’infanzia tra lo Zimbabwe e l’Inghilterra
Lei ha padre inglese e madre dello Zimbabwe, è cresciuto ad Harare fino ai 14 anni prima di tornare a Londra con i suoi. Questo ha reso più difficile integrarsi e affermarsi come attore?
«Ho avuto un vantaggio che potrà stupire: crescere in una città africana come Harare porta a non sentirsi mai al centro dell’universo. Osservi a distanza luoghi come Londra o New York, sapendo che quello che accade lì avrà delle conseguenze anche sul resto del mondo.
Un bambino meticcio, più degli altri, pensa a come costruire la propria identità e trovare il proprio posto nell’ambiente che lo circonda.
Eppure conservare uno sguardo da outsider mi è servito ad avere un distacco che mi aiuta nel lavoro e nella vita».
Quando è nato il suo desiderio di fare l’attore?
«Mi è sempre piaciuto raccontare storie, è stato il mio gioco fin da bambino e crescendo ho capito quanto sia importante non solo per me ma per tutti, quanto possa influenzare chi guarda e ascolta. L’opportunità di mettermi alla prova me l’ha data il National Youth Theatre».
Il ricordo di “Bridgerton”
Bridgerton ha inventato una società dell’800 diversa, nella quale anche un meticcio poteva essere nobile e desiderabile. Quanto ha contato questo aspetto nella sua scelta del ruolo?
«Molte cose hanno contato, dalla narrazione multirazziale allo sguardo femminista sull’amore e la mascolinità. Simon Bassett è un uomo sofferente, complesso e tosto, eppure riesce a cambiare, ad amare ed essere amato in modo migliore. I personaggi della serie affrontano problemi tipici dei nostri tempi e di sempre: anche 200 anni fa le persone avevano gli stessi desideri e bisogni, per quanto racchiusi in gabbie e restrizioni sociali».
Che effetto le aveva fatto, nel 2016, recitare nella miniserie tv Radici tratta dal romanzo di Alex Haley?
«È stata una responsabilità enorme perché è un testo fondamentale negli Stati Uniti e ha una forte risonanza in tutte le comunità nere del mondo, tant’è che da bambino mi avevano fatto vedere la versione degli anni ’70. È una storia con cui stiamo ancora facendo i conti, anche se spesso gli inglesi tendono a dimenticare quell’eredità di colonialismo e schiavitù».
Regé-Jean Page: «Sono ancora agli inizi»
Come vede il suo futuro?
«Sono ancora agli inizi della carriera, soprattutto se considero l’aspetto migliore di questo lavoro: puoi farlo, e imparare, fino alla fine dei tuoi giorni, o quasi. Spero di interpretare storie diverse, in luoghi e periodi diversi. Di lavorare con i migliori professionisti, per poter prendere appunti. Esattamente come ho potuto fare finora».