La decisione di rilasciare nell’Oceano Pacifico l’acqua contaminata della centrale nucleare di Fukushima Daiichi, colpita dal terremoto e distrutta dallo tsunami nel 2011, ha scatenato reazioni e timori. La Cina ha annunciato lo stop all’importazione di pesce giapponese, ma anche in Italia c’è preoccupazione. C’è la probabilità di veder arrivare anche sulle nostre tavole pesce giapponese “radioattivo”? Con che conseguenze? Quali sono i pesci più a rischio e come riconoscerli? Lo abbiamo chiesto agli esperti.

L’acqua di Fukushima è radioattiva?

La decisione delle autorità giapponesi arriva dopo il via libera degli esperti dell’Aiea, l’agenzia internazionale per l’energia atomica, secondo cui il rilascio dell’acqua di raffreddamento di Fukushima è la soluzione meno pericolosa. L’acqua subisce un processo di “ripulitura” e filtraggio (Advanced Liquid Processing System) che permette di eliminare 62 radionuclidi (sostanze radioattive), ma non rimuove il trizio (idrogeno-3). Si tratta di un isotopo radioattivo dell’idrogeno, che in acqua si smaltisce in circa 12 anni. Se entra nel corpo umano tramite l’acqua ci mette invece da 1 a 2 settimane per essere eliminato e l’Aiea lo considera un pericolo per l’uomo solo a dosi elevate.

I pesci possono essere contaminati?

Sì. Per questo alcuni Paesi hanno protestato, a partire dalla Cina che ha deciso il blocco delle importazioni di pesce dal Giappone. A rispondere è la Coldiretti, in un’analisi sulla base di dati Istat.

Che rischi ci sono con il pesce in Italia?

«In Italia- dice Coldiretti – sono arrivati oltre 123mila chili di pesce dal Giappone in un anno, pari a meno dello 0,02% sul totale dei prodotti ittici importanti da tutto il mondo. In realtà i quantitativi aumentano se si considerano le importazioni dei tutti i Paesi che pescano nelle acque del Mar del Giappone anche perché l’Italia è fortemente dipendente dall’estero per i prodotti ittici».

Il pesce “italiano” da dove arriva?

«Oltre l’80% del pesce fresco consumato in Italia proviene dall’estero», chiarisce ancora Coldiretti. In particolare, nel 2021 l’Italia ha importato quasi 1,2 milioni di tonnellate di pesce, per un controvalore di 6,2 miliardi di euro. A indicarlo è l’Osservatorio europeo del mercato dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura.

Quanto e quale pesce arriva dall’estero?

Si tratta soprattutto di salmone (15%), trote (8%) e tonnetto iridato (7%), seguiti da crostacei come gamberi e gamberoni, e mazzancolle, che sono acquistati principalmente da Spagna (24%, Paesi Bassi (7%), Svezia e Danimarca (per entrambe 6%). Sembra un paradosso, se si considera che l’Italia ha circa 7.500 km di coste. Secondo gli esperti è “colpa” anche dei cambiamenti negli stili alimentati, con la prevalenza del cosiddetto “pesce- bistecca”, come salmoni e tonno appunto, più facili da pulire e cucinare rispetto a molto pesce azzurro come sardine, alici, ecc. Secondo Coldiretti, però, le nuove norme Ue sulla pesca rischiano di far sparire dalle tavole un pesce italiano su tre, con il divieto della pesca a strascico, voluto invece per salvaguardare i fondali e la fauna ittica.

Che rischi corriamo con il pesce giapponese?

Tornando al pesce giapponese, quali sono i potenziali rischi? Coldiretti ricorda ancora che lo scorso anno solo 123mila kg di pesce erano giapponesi (lo 0,02% del totale dei prodotti ittici importati da tutto il mondo). Di questi, però, circa i due terzi (86mila kg) erano costituiti da filetti di tonno congelati, che possono essere usati per la preparazione di sushi nei ristoranti giapponesi in Italia. «Si tratta di una quantità irrisoria, anzi piuttosto è il Giappone che importa il tonno da no, facendolo allevare nel Mediterraneo e trasportandolo poi direttamente appena pescato a bordo di apposite navi», chiarisce Roberto La Pira, direttore del quotidiano online Ilfattoalimentare.it.

Il sushi può essere “contaminato”?

«In linea di massima no, proprio perché per la preparazione del sushi si usano pesci non provenienti dal Giappone: il salmone arriva prevalentemente da Norvegia, Gran Bretagna e Cile; il tonno è del Mediterraneo, come detto, o al limite è importato da Oceano Pacifico e Indiano in quantità minore. Tra l’altro anche altri pesci acquistati all’estero sono di zone differenti rispetto al Giappone: importiamo astici dall’America e molti gamberi dal corno d’Africa», spiega La Pira.

Come si capisce la provenienza del pesce?

Per controllare direttamente l’origine del pesce acquistato il consiglio della Coldiretti è di «verificare sul bancone l’etichetta, che per legge deve prevedere la zona di pesca, e scegliere la “zona Fao 37” se si vuole acquistare prodotto pescato del Mediterraneo». Come aggiunge Fedagripesca-Confcooperative, per evitare rischi è bene non scegliere prodotti della “zona Fao 61”, che indica l’Oceano Pacifico nord-occidentale, e “Fao 71”, che individua l’Oceano Pacifico centro-occidentale dove potrebbero esserci pesci migratori potenzialmente contaminati.

Si può trovare tonno italiano?

Sì. Per paradosso, la decisione giapponese di sversare l’acqua di Fukushima potrebbe giovare al mercato italiano perché, come ricorda Fedagripesca-Confcooperative, oltre l’80% del tonno rosso nostrano è destinata al Sol Levante e ora «potrebbero aumentare le quotazioni del 20%». Da tempo, infatti, il pesce pescato nelle zone del Sud Italia viene venduto e congelato direttamente a bordo di navi inviate appositamente dal Giappone e lì dirette con il carico pregiato.

Chi vigila su eventuali rischi, insomma c’è un sistema di allerta?

Gli italiani, come ricorda Coldiretti, mangiano circa 28 chili di pesce pro capite all’anno, sopra la media europea che è di 25 chili. Da qui un richiamo a una maggiore prudenza, anche se esiste un sistema di vigilanza: «I casi a rischio di contaminazioni sono molto pochi e sono individuati e segnalati in modo efficiente dal sistema di allerta europeo, che fa sì che ciascun paese membro segnali eventuali problemi sul pesce che esporta. Gli episodi più frequenti, comunque, riguardano richiami e ritiri per tonno e pesce azzurro per presenza di istamina, salmone per listeria o vongole per escherichia coli», conclude La Pira.