Non c’è dubbio: è il caso del momento. I riflettori sono puntati su Garlasco, lì dove si erano spenti da anni. Esattamente 18 ne sono passati dal delitto di Chiara Poggi e oggi, dopo che cinque processi a carico di un unico indiziato, Andrea Stasi, si sono già conclusi da tempo con una condanna definitiva a suo carico a 16 anni, ecco che sorgono dubbi e il fascicolo viene riaperto. Nonostante lui si sia sempre dichiarato innocente e nonostante le revisioni del processo siano state sempre rigettate. Oggi, però, ci sono nuovi elementi e la giustizia prevede che si possa riprendere in mano il caso. Come già accaduto, per esempio con Serena Mollicone o con Elisa Claps o, proprio nei giorni scorsi, con le nuove valutazioni sul caso Moro, in questo caso dopo ben 50 anni.

I riflettori tornano ad accendersi su Garlasco

Garlasco
Chiara Poggi in una delle sue ultime foto

Quanto sta accadendo a Garlasco, poco più di 9500 anime in provincia di Pavia, è in parte inedito: dopo 18 anni il paese è tornato al centro dell’attenzione, invaso da troupe televisive, giornalisti della carta stampata e dei social, fotografi e curiosi. Ma soprattutto da investigatori come quelli del Nucleo investigativo di Milano (che lo scorso marzo hanno trovato alcuni appunti di Andrea Sempio, amico del fratello della vittima, nella spazzatura), del Ris, chiamati ad analizzare nuovi reperti, esperti di vario tipo, come i genetisti, coinvolti ufficialmente o intervistati alla ricerca di pareri, dettagli e scoop. Dietro le quinte lavorano anche i tecnici che analizzano i tabulati telefonici, anche se sui media sono trapelate indiscrezioni e parti di messaggi che coinvolgerebbero amici e qualche parente dei soggetti coinvolti, come le cugine di Chiara Poggi (in particolare Paola Cappa).

Garlasco, un nuovo capitolo su un caso considerato chiuso

Il circolo mediatico, dunque, è al gran completo: segue, amplifica, ma in parte anche contribuisce ad alimentare la curiosità su un caso che indubbiamente attira l’attenzione soprattutto perché era ormai considerato chiuso. Dal 12 dicembre del 2015, quando la Cassazione ha posto la parola fine, con una condanna a 16 anni. La difesa ha provato per anni a puntare sui presunti punti deboli dell’accusa, come la mancanza di un movente e il mancato ritrovamento dell’arma del delitto. Ma per i giudici «la lettura congiunta di tutti i dati probatori acquisiti, gravi e precisi» porta «ad individuare nell’imputato, oltre ogni ragionevole dubbio, l’assassino della fidanzata».

Il precedente eclatante: Serena Mollicone

Eppure questo caso non è l’unico su cui per anni hanno continuato ad esserci speculazioni, dubbi, tentativi di riapertura: basti pensare a Serena Mollicone, uccisa ad Arce nel frusinate nel 2001. Lo scorso marzo la Cassazione ha annullato l’assoluzione di Franco, Marco e Anna Maria Mottola, la famiglia dell’ex comandante della stazione dei carabinieri della località laziale, e ha disposto un nuovo processo di appello. Decisiva è stata la perizia sulla porta della caserma dei carabinieri, che ha richiesto il coinvolgimento di esperti forensi, della scientifica e specialisti in dinamica dei traumi.

Che fine ha fatto Emanuela Orlandi?

Periodicamente, poi, si torna a parlare di Emanuela Orlandi, residente in Vaticano e scomparsa a 15 anni il 22 giugno 1983 mentre era a Roma e tornava a casa dopo una lezione di musica. Un caso di 42 anni fa, su cui sono emerse nuove ombre appena un mese e mezzo fa, col ritrovamento di un fascicolo sulla giovane, proveniente dal Ministero dell’Interno, ma privo di contenuti. Durante un’audizione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla sparizione della giovane, è stato ascoltato Lidano Marchionne, all’epoca dei fatti commissario capo della Polizia di Stato in servizio presso la Digos di Roma, per chiarimenti su un numero di un numero di telefono non identificato scritto su un diario di Emanuela e ora centrale per far luce su uno dei tanti misteri italiani.

Da Elisa Claps a Yara Gambirasio

Che dire, poi, di altri casi “scottanti”, come quello della morte di Elisa Claps, scomparsa nel 1993 e il cui corpo fu ritrovato solo nel 2010 nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza, esattamente lì dove era stata vista per l’ultima volta. Per il suo omicidio è stato condannato in via definitiva Danilo Restivo, ma per provarne la colpevolezza furono effettuate numerose perizie, accertamenti, analisi e rilievi, oltreché rogatorie internazionali. Decisivo risultò poi il ritrovamento di tracce di sangue su un suo maglione. Nel caso di Yara Gambirasio, invece, sono stati passati al vaglio oltre 18mila profili alla ricerca del Dna di “Ignoto 1”. Ad essere condannato è stato Massimo Bossetti, che si è sempre detto innocente, e più volte si è parlato di una riapertura del caso, finora però mai avvenuta.

Quando si riapre un caso?

La domanda, quindi, è quando un caso può essere riaperto? «Un caso si può riaprire anche dopo molti anni, ma servono nuovi elementi di prova che non erano disponibili al momento del processo: possono essere nuove testimonianze, analisi scientifiche più avanzate – come nel caso del DNA – oppure fatti nuovi che cambiano il quadro probatorio. Non basta un sospetto o un dubbio generico: la legge richiede che ci siano ‘nuovi elementi idonei a condurre a un diverso esito del processo’», spiega l’avvocata penalista Elena Lepre, cassazionista, consigliera fondatrice dell’associazione “Carcere Possibile O.N.L.U.S”.

Nessun limite di tempo

Un altro elemento che sconcerta è la distanza temporale che a volte separa i fatti o le condanne dalla riapertura dei fascicoli. Sul caso Moro, infatti, sono emersi solo in questi giorni elementi che potrebbero risultare determinanti per far luce sul rapimento del segretario della Democrazia Cristiana e la sua uccisione nel 1978. «In linea generale, non esiste un termine massimo rigido per chiedere la revisione di una sentenza definitiva: il nostro ordinamento lascia aperta questa possibilità proprio per evitare che un errore giudiziario diventi irreparabile. È per questo che anche a cinquant’anni di distanza, proprio nel caso Moro, possono emergere elementi nuovi che impongono una rilettura dei fatti», spiega Lepre.

Chi può chiedere la revisione

Non basta, però, il ritrovamento di un nuovo potenziale elemento di prova a riprendere in mano un caso. «Naturalmente la richiesta di revisione di un processo deve passare il vaglio rigoroso della Corte d’Appello competente – chiarisce l’avvocato – Possono chiedere la revisione sia il condannato o il suo difensore, sia il pubblico ministero. In certi casi è una possibilità anche per i prossimi congiunti del condannato, per esempio se quest’ultimo nel frattempo è deceduto».

Se un condannato risulta poi innocente

Se l’ordinamento prevede la possibilità di riapertura di un caso e la revisione di una sentenza, dunque, è soprattutto per permettere che, in caso di errore, ci sia l’opportunità di “riparare”. Ma cosa accade in caso di errore giudiziario, quindi di una sentenza sbagliata? Come e quando eventualmente scatta un risarcimento nei confronti di una persona condannata ingiustamente? «Il risarcimento per errore giudiziario scatta solo dopo che è stata riconosciuta la revisione della sentenza e accertata l’innocenza della persona condannata. Non è automatico: serve una nuova sentenza che lo dichiari e solo successivamente si può chiedere l’indennizzo allo Stato», spiega Lepre.

Come si calcola un risarcimento per un errore giudiziario

Nel caso di Garlasco c’è già chi, sui media, ipotizza un colpo di scena, con un rovesciamento della condanna nei confronti di Alberto Stasi e una sua assoluzione. Questo comporterebbe un risarcimento milionario (si parla persino di 4 milioni di euro, secondo previsioni di alcuni esperti). Lepre invita alla prudenza: «L’importo può variare molto: si tiene conto soprattutto della durata della detenzione, del danno alla reputazione, del disagio psicologico e delle conseguenze personali e professionali. È un calcolo complesso, ma nei casi più eclatanti può certamente arrivare a centinaia di migliaia di euro».

Chi paga?

Sicuramente la riapertura di un caso comporta enormi spese, sia per i mezzi e gli uomini che vanno dispiegati per le nuove analisi, perizie, sopralluoghi, ecc., sia per eventuali risarcimenti in caso di riconoscimento di un errore giudiziario. «Naturalmente sono due ambiti differenti: i difensori di Stasi hanno effettuato un calcolo ipotetico di risarcimento sulla base dei parametri indicati, ma non è scontato che poi quella cifra sia realmente riconosciuta al loro assistito – commenta l’avvocato – Per quanto riguarda le spese che si stanno sostenendo per perizie ed analisi, sono coperte dallo Stato. In caso, infine, di un eventuale risarcimento dei danni ai familiari della vittima, sarebbero questi a doverli chiedere a colui che eventualmente sarebbe condannato con una nuova sentenza».