Bella, magra, desiderabile. Sexy ma remissiva. Intraprendente ma docile. Intelligente quanto basta, ma non troppo ambiziosa. Capace di dare il massimo, però senza pretese. È già tanto essere arrivata fino a lì, nelle piccole o grandi stanze dei bottoni. Sii contenta. Ringrazia. Brava sei brava, lasciatelo dire. Ma resta un passo indietro. Non strafare. Ssssh. Madri, padri, amici, colleghi, fidanzati, capi, perfetti sconosciuti, media e social media ce lo ripetono tutti i giorni, anche senza dircelo direttamente. Come dobbiamo essere. Cosa dobbiamo dire, fare, pensare per essere accettate. Riconosciute in uno spazio condiviso, che sia il lavoro, la società, la politica… Approved.
Bisbigli che cominciano presto
I diktat cominciano fin da piccole. Ubbidisci, stai composta, sii gentile. Comportati da signorina. Asfaltano intemperanze e ribellioni nell’adolescenza, quando la piazza si allarga, gli sguardi diventano infiniti, la voglia di distinguersi fa a pugni con quella di omologazione, le pressioni diventano mattoni. L’unico modo per piacersi è piacere. Abbassano la voce quando diventiamo grandi. Ma sono bisbigli acuminati, sciami di vespe nella testa che ci indicano le direzioni giuste e sbagliate da prendere o evitare, silenziando la nostra voce interiore. Fai figli, vai in palestra, di’ di sì.
La rappresentazione del corpo delle donne nello spazio pubblico
Devo. È questo il verbo più usato nelle risposte al quarto e ultimo sondaggio del nostro Osservatorio sui diritti, quello dedicato al corpo e al ruolo che giochiamo nello spazio pubblico.
7 donne su 10 dichiarano che vorrebbero cambiare i propri connotati. Poche alla fine lo fanno. Ma il desiderio è lì. E non è neanche davvero un desiderio, ma un bisogno indotto per rispondere a certi parametri
Una donna su 2 sogna di essere magra. Tutti i messaggi sulla body positivity sono parole al vento, se poi la “propaganda” continua a mostrare fisici statuari e assurdamente perfetti; se le passerelle delle fashion week, finita la sbornia delle plus size, fatto il compitino, rimettono a sfilare silhouette efebiche e scarne, con le ossa sporgenti; se i corpi “altri”, segnati, opulenti, macchiati, grinzosi, tremolanti, veri, rimangono relegati sui manifesti delle campagne choc e nei piani di marketing che ripuliscono le reputazioni oppure diventano bersaglio degli haters.
Di social, filtri e superlativi
Un doppio standard che confonde le idee, inganna le più giovani, perpetua un modello irraggiungibile, nell’attimo stesso in cui lo nega. Sui social le ragazze mostrano immagini filtrate. Finte. Perché di quello che sono veramente si vergognano. Persino quando sono belle chiedono di più. Più labbra, più seno, più ciglia, più curve. Il nuovo mondo è fatto di superlativi. Di avatar costruiti al computer a cui ispirarsi. E noi, sceme, a seguirli.
Gli sguardi più giudicanti? Quelli più vicini
Insicurezza. È l’altra parola emersa dal sondaggio. E riguarda tutte. Dalla Gen Z alle Millennials, passando per le Boomers che vorrebbero rimanere sempre giovani. E hanno assorbito così a lungo vecchi retaggi, che fanno fatica a fornire nuovi modelli. È il loro sguardo “contaminato”, insieme a quello dei partner e dei familiari, il più gratuitamente giudicante. Quello che pesa di più. Che nutre il senso perenne di inadeguatezza di cui siamo vittime tutte senza distinzione, da tempo immemorabile. E che portiamo ovunque. In casa, nelle relazioni, sul lavoro.
Il danno parte da lì. Passa dal corpo, e si riverbera su tutto. Se vuoi ferirci, colpisci lì. Culona, racchia, vecchia strega
Dal compagnetto dell’asilo al collega carogna, il campionario d’insulti ha sempre a che fare con l’aspetto. Come se il nostro valore si fermasse a quello. La forma come metro di valutazione. L’involucro per il tutto.
Anche le parole plasmano la rappresentazione delle donne
A perpetuare questa idea ci pensano non solo le immagini-archetipo che ci rappresentano – la madre, la sposa, la vittima, la gattamorta, la crocerossina – ma pure le parole. Intrise di stereotipi. Piegate a convenzioni stantie e superatissime. Inadatte a raccontarci nella nostra interezza. A proclamarci finalmente “Libere e uguali”. È questo il nome che abbiamo dato al progetto lanciato l’8 marzo all’Università Statale di Milano con l’intenzione di ripulire dalle erbacce il terreno su cui fioriscono i pregiudizi di cui si nutre la violenza. Siamo arrivate al termine del nostro primo mandato. Capiti i problemi, ora bisogna trovare le soluzioni. Ci stiamo lavorando. Prossimo appuntamento, il 25 novembre.