«Ogni vittima merita giustizia, specialmente se non può parlare più. Per questo i casi irrisolti mi stanno a cuore». Pamela Franconieri è la responsabile del settore centrale operativo della Polizia per i reati gravi contro la persona ed è anche alla guida dell’Unità Delitti Insoluti, quei crimini rimasti senza un colpevole ma sui quali è possibile riaccendere una luce. E la speranza perché risolvere un cold case è possibile. «Non mi piace definirli “cold case” perché per me sono tutti casi caldi, e dolorosi. Una persona vittima di un atto irreversibile non ha ottenuto giustizia, ed è una sconfitta per tutti».
I cold case, una miniera per le serie tv
Si tratta di storie che tengono con il fiato sospeso, come dimostrano le cronache di questi giorni sul caso Garlasco, ma anche il successo di serie tv, dalla storica Cold case alla nuova Dept Q di Netflix, e di programmi come Chi l’ha visto?, che spesso ripropone casi di nera rimasti senza un chi e un perché. Racconta Franconieri: «Il nostro lavoro consiste nell’analizzare vecchi fascicoli di indagini per valutare se, alla luce di nuovi metodi investigativi o tecnologici, si possa chiedere la riapertura all’autorità giudiziaria. È un lavoro che facciamo in silenzio, per non creare false speranze nei familiari delle vittime». Proprio come nel telefilm Cold case con la tenace e perspicace protagonista Lilly Rush, analizzare un delitto irrisolto equivale a compiere un viaggio nel passato «perché tutto deve essere calato nel contesto in cui è avvenuto, anche le strade che ricostruiamo con foto e topografia».
Risolvere un cold case: alla ricerca della verità
Si tratta di un puzzle da ricomporre a più mani. Dalla sabbia sotto a una scarpa ai diari, fino al DNA: i cold case si riaccendono quando le competenze dialogano fra loro. Ma l’esito dipende molto da come è stato condotto il sopralluogo sulla scena del crimine e, soprattutto, da come sono stati conservati i reperti. La responsabile dell’UDI Pamela Franconieri ricorda un caso (ir)risolto in maniera positiva: «Dopo 33 anni siamo riusciti a far arrestare il presunto assassino dei coniugi Fioretto, uccisi nel loro giardino di casa a Vicenza nel 1991, grazie a tracce di Dna rinvenute su un guanto che era stato raccolto in una via di fuga. A prescindere da quello che sarà l’esito del processo e dalla prescrizione o meno del reato, una verità storica almeno salta fuori. E chi commette crimini di questo tipo deve sapere che non potrà farla franca per sempre». Risolvere i cold case è soprattutto un lavoro multidisciplinare e di squadra. E piace alle donne, come dimostrano le studiose di cold case italiani che intervistiamo nella pagina seguente.
La geologa dei cold case: «Il terreno non dimentica»
La geologa forense Rosa Maria Di Maggio è stata tra le prime, in Italia, a portare i granelli di sabbia in tribunale. «All’estero, nei primi anni Duemila, la disciplina esisteva già, mentre il “Laboratorio terreni” della Polizia Scientifica lo abbiamo costruito io e un mio collega: abbiamo comprato gli strumenti, scritto i protocolli e dimostrato che il suolo può incastrare un assassino quanto un’impronta digitale». Come? «I frammenti inorganici, roccia e minerali, si conservano per ere geologiche e, se il campione è stato repertato bene, lo analizzi anche dopo anni. Il 90% dei delitti è commesso all’aperto e si può collegare una persona a un luogo o a una dinamica. Una volta una ragazza si presentò dai Carabinieri dicendo che il fidanzato voleva ucciderla gettandola in un fosso. Le sue scarpe erano sporche di fango, e così la bicicletta di lui. Analizzando i terreni abbiamo dimostrato la corrispondenza tra la scarpa della vittima, la bici dell’indagato e il canale indicato. È solo un esempio, ma rende l’idea: anche quando il reato avviene in casa ci può essere qualcosa all’esterno da ricollegare, come con la bici di Garlasco». Nel 2011 Di Maggio ha lasciato la Scientifica e si è iscritta da libera professionista all’albo dei consulenti tecnici del tribunale, dedicandosi alla divulgazione: «Chi vuole intraprendere questa strada può laurearsi in Geologia e poi frequentare un master forense che, oltre alla tecnica, insegna la procedura penale, le prassi per una buona repertazione e la comunicazione, perché occorre saper spiegare la scienza a chi poi deve prendere decisioni».
Le genetiste: «Il DNA non scade»
Marina Baldi è una nota genetista, oggi impegnata nei gialli di Liliana Resinovich e Pierina Paganelli. Ricorda che nel delitto dell’Olgiata, anno 1991, il profilo del colpevole è riemerso dopo 30 anni: «In teoria il DNA non scade mai, tant’è che lo estraiamo anche dai fossili e dai corpi riesumati. Il nemico è la cattiva conservazione». Laureata in Scienze biologiche, si è specializzata in Genetica medica nel 1980: all’epoca la branca era agli albori e al corso erano meno di 50. «Mio nonno aveva un laboratorio di analisi e a 16 anni ho iniziato a lavorare lì sciacquando provette: fu lui a dirmi che questa sarebbe stata la scienza del futuro. Oggi mi occupo di diagnosi genetiche, prenatali e così via. Quando un collega dei RIS mi disse: “Dovresti passare al crimine” mi sono buttata anche in questo settore». La biologa Emanuela Cipolletta invece lavora in Polizia, presso la Scientifica di Roma. «Il vantaggio? Laboratori di ultima generazione e la banca dati del DNA operativa dal 2017. I profili ignoti vengono inseriti e confrontati con scene del crimine vecchie e nuove: così si collegano delitti anche a distanza di anni». Secondo Marina Baldi, su «10 casi mediatici insoluti, tantissimi altri si risolvono egregiamente». Un esempio? «In quello di Yara Gambirasio il DNA (usato nelle indagini dalla fine degli anni ’80, ndr) è stato fondamentale».
La tossicologa: «Anche il veleno parla»
La tossicologia forense è parte attiva nel risolvere un cold case. «Se i campioni sono stati conservati bene, possiamo individuare tracce di sostanze tossiche grazie a tecniche ultra-sensibili a distanza di anni» spiega l’esperta di Medicina legale Jennifer P. Pascali, a capo del laboratorio di Tossicologia Forense dell’Università di Bologna. Ogni matrice biologica – sangue, urina, capelli – racconta una storia diversa. «Il sangue è la fotografia del momento, nei capelli è stato possibile identificare sostanze psicoattive come cocaina, nicotina e THC persino in mummie di 3.000 anni fa». In alcuni casi i test hanno ribaltato la narrazione iniziale: «Una sostanza può rendere la vittima incapace di difendersi o simulare un suicidio». Anche nei casi di violenza sessuale facilitata da droghe, come il GHB, «la vittima può non ricordare nulla, mentre un capello parla».
La psicologa dei cold case: «Prima i fatti, poi l’intuito»
La psicologa forense e criminologa Roberta Catania, protagonista anche della docuserie true crime Cold/Open su Prime Video, ha riaperto dopo 40 anni il fascicolo su Mirella Gregori, scomparsa a Roma il 7 maggio 1983, un mese prima di Emanuela Orlandi. «Nessun testimone diretto, solo carte e diari. Grazie a essi ho potuto ricostruire la personalità di Mirella, i suoi rapporti, i possibili eventi scatenanti: l’analisi della vittima è uno strumento potentissimo». Laurea in Psicologia clinica e master in Psicologia giuridica, Catania ritiene che occorra «padroneggiare metodo scientifico e sospendere il giudizio: spesso ci si innamora di un’ipotesi e si cercano solo conferme. Al contrario, bisogna partire dal dato granitico – un DNA, un referto – e costruirci intorno il racconto dei fatti».