Parole giuste per la violenza di genere

Le parole (giuste) per raccontare la violenza di genere

Il linguaggio con cui si racconta la violenza, nelle sentenze e sui media, è intriso di pregiudizi. Troppo spesso colpevolizza le vittime e giustifica i carnefici. Cambiamolo

Violenza di genere: le parole contano

«Le parole sono importanti e quando si tratta di violenza di genere lo diventano ancora di più. Perché il linguaggio che racconta un abuso, uno stupro, un femminicidio può essere intriso di stereotipi e pregiudizi tanto da colpevolizzare due volte la vittima o da minimizzare le responsabilità di chi commette il reato. L’Osservatorio indipendente STEP nasce con l’intenzione di collaborare tra accademici e giornalisti per rappresentare socialmente la violenza maschile verso le donne in modo corretto e rispettoso, sia sui media sia nelle sentenze.

Gli errori di linguaggio più comuni

Modo corretto significa non romanzare i fatti e non stabilire nessi causali: un titolo come “Lei voleva separarsi, lui l’ha uccisa”, per esempio, addossa alla vittima la responsabilità del suo femminicidio e giustifica l’assassino concedendogli un’attenuante. Un altro errore è descrivere un rapporto squilibrato come amore malato: non bisognerebbe mai accostare la parola amore alla violenza, né considerarla fisiologica dentro la coppia e confonderla con un litigio, che presuppone un piano di parità e un contesto in cui entrambi i partner sono liberi di esprimersi. Un uomo maltrattante non riconosce mai alla compagna il diritto alla ribellione. Ricordiamoci che la violenza è reato, il litigio no.

Il problema della violenza di genere in Italia

Purtroppo l’Italia si percepisce come un Paese avanzato, ma culturalmente è molto indietro: il Gender Gap Report sulla parità di genere nel mondo ci mette al 79° posto, le condizioni strutturali nelle quali vivono donne e uomini sono ancora sbilanciate e questo produce una cultura che fa sì che un certo grado di violenza, soprattutto domestica, sia ritenuta quasi ammissibile. Con il progetto STEP abbiamo analizzato 16.715 articoli pubblicati sui quotidiani e 250 sentenze giuridiche, è il database più ampio d’Europa: è emersa una ricorrente mancanza di stigma, riprovazione sociale, giudizio chiaramente negativo verso il violento, pensiamo all’uso di frasi attenuanti come “era geloso”, “sembrava una brava persona”.

Le parole di empatia si spostano dalla vittima al carnefice

Ricordo una sentenza in particolare, che mi ha fatto balzare sulla sedia, in cui il giudice empatizzava con il femminicida scrivendo che lui con la partner non riusciva a sentirsi uomo ed era non del tutto “umanamente incomprensibile” che avesse ammazzato la donna. Questa è la cosiddetta “impathy”, l’empatia che si sposta dalla vittima al carnefice, un modo di raccontare la violenza maschile come una soverchiante tempesta emotiva, un raptus, un impulso dovuto magari al testosterone. Invece, come ben spiegato dal sociologo americano Michael Kimmel, un violento indirizza l’abuso laddove sa che può farla più franca e che è culturalmente più accettabile. Pensiamo a un uomo licenziato in tronco dal suo capufficio: su chi sfogherà più facilmente la sua rabbia, sul datore di lavoro maschio o sulla moglie una volta tornato a casa?

Al mio corso di Sociologia della violenza di genere raccomando sempre di non ragionare per stereotipi perché non esiste una vittima ideale e gli abusi non capitano solo a donne giovani e vestite attillate. La violenza non ha a che fare con la sensualità e la provocazione: ha sempre a che fare con il potere».

Testo raccolto da Sara Peggion

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