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Violenza sulle donne: la prima trappola è linguistica

Sono tante, troppe le parole d'odio. Sui social, per strada, in politica. E in molti casi sono indirizzate alle donne. Tre protagoniste del FestivalFilosofia ci spiegano perché e come rimediare

Il linguaggio come arma

La parola è ciò che rende unico l’uomo. Lo hanno detto nel corso dei secoli poeti, scrittori, intellettuali. Ma oggi che la comunicazione la fa da padrona, in un mondo in cui tutti ci raccontiamo, esprimiamo opinioni, discutiamo fino a urlare, questo grande dono si trasforma troppo spesso in un’arma. Ce ne rendiamo conto ogni giorno quando ascoltiamo le dichiarazioni omofobe del tal politico, vediamo gli insulti razzisti sugli striscioni allo stadio, leggiamo sui social le offese sprezzanti rivolte alle vittime di stupro. Perché il linguaggio sta diventando sempre di più uno strumento d’odio? Come possiamo cambiare marcia? Lo abbiamo chiesto a tre protagoniste del FestivalFilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, che proprio al potere della parola dedica l’edizione di quest’anno.

Il potere del linguaggio

La passione di Claudia Bianchi, professoressa ordinaria di Filosofia del linguaggio all’università Vita-Salute San Raffaele di Milano, ha origini antiche. «Da bambina il mio libro preferito era il dizionario» racconta la docente, che al San Raffaele dirige anche l’Interfaculty Centre for Gender Studies. «Il linguaggio è il modo in cui definiamo noi stessi, ci presentiamo agli altri e modifichiamo la realtà sociale. È uno strumento molto potente. Anche in senso negativo, visto che con le parole possiamo ferire le persone e persino dichiarare guerra. Per quanto sia sempre esistito, oggi il linguaggio d’odio sembra dominante, perché i momenti di crisi lo amplificano: l’uomo ha quasi un bisogno fisiologico di trovare dei nemici e scatenare la propria rabbia. Inoltre i social fanno da cassa di risonanza».

Cos’è il linguaggio dell’odio

Le parole ostili sono qualcosa di più di una semplice offesa, precisa Bianchi, che il 16 settembre tiene la lectio magistralis Linguaggi d’odio. Come funzionano le strategie di denigrazione. «Sono un’aggressione contro chi è diverso, altro da noi. I migranti, per esempio, considerati esseri inferiori, animali o addirittura merce. O le donne, sempre più spesso insultate perché non sottostanno alle regole sociali, si ribellano». Una deriva pericolosa, che però si può contrastare. «La filosofia ha un’enorme responsabilità: rendere le persone più consapevoli, sottolineando la forza dirompente delle parole. Tutti, poi, possiamo e dobbiamo essere più attenti. E intervenire ogni giorno davanti al linguaggio d’odio, esprimendo dissenso contro chi lo mette in atto e solidarietà verso chi lo subisce. Seminare rispetto è il primo passo».

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Il linguaggio dell’odio colpevolizza le donne

Anche nel pensiero di Michela Marzano si avverte l’urgenza di un cambiamento. Professoressa di Filosofia morale all’università Paris V-René Descartes, ha appena pubblicato il libro Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa (Rizzoli), in cui esplora il rapporto tra linguaggio e sessualità, e il 17 settembre parla di Consenso o cedimento? Una trappola linguistica. «Quando si affronta il tema del consenso, occorre andare a fondo. Spesso, infatti, la donna non dice un vero sì, ma semplicemente “cede”. Perché l’uomo non ascolta il suo no o perché ha molto più potere di lei. La comunicazione si interrompe, non c’è più ascolto: accade quando si parte dal presupposto che l’altro, in questo caso la donna, sia solo un oggetto passivo, qualcosa che non merita attenzione e deve soltanto dare piacere».

La violenza continua anche dopo il rapporto estorto. «La vittima viene colpevolizzata. Lo vediamo ogni volta in descrizioni come “Indossava una gonna corta”, “Aveva bevuto”…» ragiona Marzano. «Il motivo? Il linguaggio riflette gli stereotipi patriarcali, secondo cui l’uomo non riesce a frenarsi perché è fatto così e la donna, in fondo, è un po’ facile. Sono convinzioni assurde nel 2023, che vanno cancellate. Serve, ovviamente, un grande lavoro di educazione sui giovani, ma ci vuole anche un’azione da parte delle donne. Iniziamo a discutere, a dialogare, a farci ascoltare. A dare peso alle nostre parole dicendo chi siamo, cosa proviamo e cosa vogliamo. Dobbiamo farlo sempre, in ogni situazione».

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Il mansplaining

Le parole devono diventare importanti nella vita di tutti i giorni per Cecilia Robustelli, professoressa di Linguistica italiana all’università di Modena e Reggio Emilia. «Il rapporto tra le parole di cui parlerò al Festival – ovvero lingua, linguaggio, sesso e genere – è fondamentale nel mio campo, ma oggi è necessario che anche il grande pubblico lo conosca. Il significato di sessismo, discriminazione linguistica, concetto di genere deve essere noto per capire che certi usi della lingua riflettono la disparità sociale esistente tra uomini e donne: i primi hanno potere e autorità, le donne restano in secondo piano. Solo così riconosceremo la gravità di stereotipi e violenze verbali, il tono paternalistico degli uomini – il cosiddetto mansplaining – e la funzione di usare i termini femminili per le professioni svolte da donne».

La desinenza senza genere

Il linguaggio rischia dunque di assomigliare a una zavorra che frena il mondo femminile. Perciò Robustelli, nella lectio del 15 settembre Lingua, linguaggio, sesso e genere, propone un modello per una comunicazione equa e sostenibile che rappresenti davvero le donne. E va oltre: «La linguistica discute da tempo anche sul binarismo di genere, cioè la tradizionale ripartizione in due sessi e due generi. Ma la proposta di sostituire la desinenza grammaticale con un simbolo (la famosa schwa, ndr), così popolare in Rete, non è realizzabile nella quotidianità perché rende le frasi spezzate. E allora? Ne parleremo, cercando di coniugare creatività linguistica e uso concreto della lingua».

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