C’era una volta la fiducia nel futuro: era tipica delle giovani generazioni, che aspiravano a migliorare la propria condizione rispetto a quella dei genitori e dei nonni. Oggi, invece, sembra tramontata. O meglio: a credere ancora di poter realizzare i propri sogni e le proprie aspirazioni sono soprattutto coloro che arrivano da una famiglia, un contesto sociale o territori che offrono più opportunità di partenza. Ma allora che fine ha fatto la possibilità di crescere grazie al cosiddetto ascensore sociale?

L’ottimismo c’è, ma solo per pochi

Ad analizzare aspirazioni, desideri, ma anche fiducia nel futuro da parte dei giovani è un’indagine realizzata sulle competenze dei quindicenni dall’Ocse-Pisa (Programme for International Student Assessment, un programma promosso dall’OCSE che verifica a cadenza triennale le competenze dei giovani in lettura, matematica e scienze naturali per poi effettuare un confronto internazionale). I ricercatori hanno analizzato 387.626 studenti di 57 Paesi, che nel 2022 hanno risposto a un questionario. Il primo dato che ne emerge è che i giovani credono ancora nel loro futuro, nonostante l’incertezza economica e sociale del momento. Ad accomunare i ragazzi italiani ai loro coetanei sparsi nel mondo è anche una certa disuguaglianza di reddito, anche se proprio dalle condizioni economiche arriva un primo segnale allarmante: i più fiduciosi sono coloro che provengono da famiglie e regioni più avvantaggiate.

Ereditocrazia: quanto contano le condizioni familiari

A segnare le possibilità di miglioramento del proprio benessere, dunque, conta – e non poco – il contesto familiare di provenienza e questo vale soprattutto per i giovani: soltanto 6 su 10 in Italia pensano che il solo impegno possa essere sufficiente per fare carriera, mentre all’estero il dato medio è del 74%. A peggiorare il quadro è il fatto che quasi 3 ragazzi e ragazze italiani su 10 ritiene che la scuola sia una perdita di tempo, rispetto al 27% dei coetanei negli altri Paesi presi in esame.

Meritocrazia addio?

Come riporta The Economist, dagli anni ’90 ad oggi in Italia e in altri Paesi nel mondo le disuguaglianze di reddito sono aumentate, mentre è calata la produttività (basti pensare alle stime di crescita del Pil). Da qui un certo pessimismo nei confronti della possibilità di trovare una propria strada, con le proprie forze e i propri meriti, che a loro volta consentano di migliorare la propria condizione. Insomma, tutto lascerebbe pensare che ci sia sfiducia nella meritocrazia.

Ereditocrazia: quanto contano gli atenei esclusivi

«Oggi, purtroppo, tra molti giovani (ma non solo) c’è sfiducia nella meritocrazia, in parte giustificata» osserva Irene Bosi, career coach. «In certi contesti professionali, come il mondo corporate, la consulenza strategica o l’investment banking, è evidente che il punto di partenza conta. Frequentare università private con rette elevate ti garantisce accesso a career service di alto livello, network privilegiati, processi di selezione dedicati. In Italia esistono ancora realtà che reclutano esclusivamente da pochi atenei selezionati. Questo crea un evidente vantaggio competitivo per chi proviene da famiglie con determinate possibilità economiche».

Puntare anche sul digitale

Secondo Bosi, però, «sarebbe sbagliato fermarsi a questa fotografia. Negli ultimi anni, accanto a questi percorsi più tradizionali, è emerso un intero ecosistema lavorativo che si muove su logiche diverse: il mondo del digitale. Qui il punto d’ingresso è molto meno vincolato al background socioeconomico. Se sai fare qualcosa, e lo dimostri, puoi costruirti un’opportunità, anche senza bollini prestigiosi. Penso alla creator economy, al marketing digitale, al mondo tech, alle startup. Settori in cui contano le competenze, l’iniziativa e la capacità di costruire valore tangibile».

Le nuove opportunità che vanno colte

«Io vengo dal mondo corporate e ho visto da vicino quanto sia forte la selezione d’élite. Oggi lavoro nel digitale e ho colleghi senza laurea che guadagnano più di tanti senior manager in multinazionale. Penso a persone come Martina Strazzer (influencer e tra le under 30 di successo, secondo Forbes, NdR), che senza tante risorse o nomi di Università super prestigiose alle spalle, ma armata di competenze e determinazione, ha costruito un business milionario. Non è l’unica e certo non è facile, ma in questi settori il merito ha uno spazio reale: va raccontato ai giovani perché, se è vero che in Italia alcune porte sono ancora riservate a pochi, è altrettanto vero che ci sono mondi in cui il talento, l’impegno e la capacità di imparare ti permettono di costruirti una strada», esorta Bosi.

Torna l’ereditocrazia

Lo scenario generale, però, preoccupa perché la meritocrazia si contrappone alla ereditocrazia, ossia il principio per cui occorre affidarsi all’eredità dei genitori (o dei nonni) per avere successo o affermarsi. «Questa percezione è diffusa tra i giovani italiani – spiega Bosi – Se guardiamo i dati del Rapporto Censis 2024, notiamo che l’85,5% degli italiani ritiene difficile migliorare la propria condizione sociale, evidenziando un grande pessimismo riguardo alla mobilità sociale. Viviamo purtroppo in una società che ha smesso di raccontare il futuro come una promessa, i giovani si trovano immersi in un presente dove il successo non è più un progetto da costruire. È una forma di disincanto silenzioso, che rischia di diventare rassegnazione sociale», rimarca l’esperta.

Come superare l’ereditocrazia

«Se vogliamo uscire da questa trappola, servono politiche coraggiose, che rimettano l’istruzione al centro, che riducano le disuguaglianze di accesso alle opportunità, che valorizzino davvero il merito, non in modo retorico – esorta Bosi – Anche in questo il digitale, sebbene non immune da forme di disuguaglianza, rappresenta oggi uno dei contesti in cui le barriere d’accesso sono meno rigide e dove il talento e la determinazione possono fare la differenza. Sono molti i casi di successo oltre l’ereditocrazia: giovani che non vengono assolutamente da famiglie abbienti e che senza risorse fornite dal contesto sono riusciti a creare progetti molto ambiziosi».

Quanto conta il luogo di nascita

Le disparità, però, non sarebbero solo legate all’ereditocrazia perché, a pesare sul proprio futuro – più o meno roseo – sarebbe anche la fortuna di nascere in un territorio più sviluppato, pena il venir meno del sogno di poter crescere e fare carriera. «Indubbiamente queste differenze esistono: basta pensare a tutti i giovani che migrano verso Milano per ragioni di studi o di opportunità lavorative, tra l’altro incontrando non poche difficoltà, come per esempio affitti carissimi e in generale scarsa disponibilità di alloggi per giovani studenti o lavoratori», osserva Bosi.

Oltre l’ereditocrazia: qualcosa si muove

Eppure qualche segnale di cambiamento esiste: «Sicuramente si sta muovendo qualcosa per ridurre queste disuguaglianze. Ad esempio noto che aumentano gli eventi formativi e di networking che si svolgono in città diverse da Milano (penso ad eventi come ABCD Bari per esempio), ma c’è ancora tanto lavoro da fare – racconta la career coach – Ancora una volta il digitale è una grande opportunità: con l’aumento del lavoro da remoto e delle professioni digitali, molti giovani possono ora lavorare per aziende nazionali e internazionali senza doversi trasferire fisicamente. Questa flessibilità permette a chi vive in regioni meno sviluppate di accedere a opportunità che altrimenti sarebbero state fuori portata».

Generazioni a confronto

Indubbiamente la generazione dei ragazzi di oggi vive un contesto differente rispetto a genitori e nonni: «Credo che in generale la famiglia di origine abbia sempre avuto un peso significativo nelle possibilità di affermazione personale e professionale. Ma il contesto economico e sociale era diverso: era più facile immaginare e in alcuni casi anche percorrere un sentiero di riscatto, pure per chi partiva da condizioni svantaggiate. Negli anni del dopoguerra e fino agli ’80 l’economia cresceva, aumentava l’occupazione e lo Stato giocava un ruolo attivo nell’equilibrare le disparità attraverso la scuola pubblica, il welfare, la stabilità del lavoro. La mobilità sociale non era garantita, ma possibile. C’era fiducia nel futuro e questa fiducia era un collante potente», osserva l’esperta.

Dov’è finito l’ascensore sociale?

«Oggi la situazione è cambiata. Viviamo in una società dove il contesto familiare continua ad avere un peso determinante, ma in un quadro molto più rigido, segnato da precarietà strutturale, blocco dell’ascensore sociale e polarizzazione territoriale. L’elemento nuovo che oggi offre nuove possibilità rispetto al passato è sicuramente il digitale che non elimina le disuguaglianze, ma può ridurre la dipendenza dal territorio e dalla rete familiare, restituendo potere all’individuo», ricorda Bosi.

Un problema italiano: esiste ancora la “casta”?

Il dubbio che sorge è che si tratti solo di problematiche italiane: «Sì, credo che il problema della bassa mobilità sociale sia particolarmente acuto in Italia, più che in altri Paesi. E non solo per motivi economici, ma per ragioni profondamente culturali, storiche e istituzionali. In molti Paesi europei, le politiche pubbliche hanno avuto e continuano ad avere un ruolo attivo nel garantire l’eguaglianza delle opportunità. Penso alla Danimarca, alla Norvegia, ma anche a Germania e Francia, dove il sistema educativo e il welfare funzionano come strumenti correttivi: chi nasce in un contesto svantaggiato può comunque contare su servizi efficienti, scuole di qualità, politiche abitative accessibili, formazione continua. In Italia, invece, tutto questo è molto più fragile, purtroppo».

Il retaggio del “posto fisso”

«C’è poi un’altra questione: la cultura del “posto fisso”, della raccomandazione, delle conoscenze giuste. È un’eredità storica che non abbiamo ancora superato. In Italia le carriere spesso non si costruiscono su base meritocratica, ma relazionale. In un contesto dove il mercato del lavoro è rigido, e le opportunità sono scarse, prevale una logica difensiva: chi ha accesso a risorse e reti privilegiate, tende a conservarle, mentre chi resta fuori ha poche occasioni per rientrare nel gioco. Siamo un sistema in cui il talento c’è ma rischia di restare invisibile», spiega Bosi. «Le “caste” di cui parlava il libro del giornalista Sergio Rizzo sono diventate più liquide, meno visibili, ma ancora molto presenti».

Il consiglio ai giovani

«Ai giovani dico di non arrendersi all’idea che tutto sia già scritto e di avere fiducia e ottimismo nel futuro. Studiate, formatevi, cercate di essere sempre un passo avanti, non per inseguire un ideale astratto di perfezione, ma per costruirvi delle reali possibilità di scelta. Perché sì, il contesto è difficile, le disuguaglianze ci sono, e spesso non dipendono da voi. Ma rimanere fermi non aiuta. Oggi più che mai serve un approccio attivo: non aspettare che le opportunità arrivino, ma imparare a crearle. In questo, il digitale è un alleato potente. È uno spazio dove, se sei competente, se porti valore, puoi emergere davvero», conclude Irene Bosi.