«Una ragazza dovrebbe avere una stanza tutta per sé» è una famosissima frase di Virginia Woolf. Ma, detta così, risulta mozzata.

Donne e soldi: l’importanza di una rendita

Come ci ha ricordato Michela Murgia in Morgana (scritto con Chiara Tagliaferri per Mondadori) la citazione completa recita: «Una ragazza dovrebbe avere una stanza tutta per sé e una rendita di 500 sterline l’anno». E così sottolinea «il rapporto tra l’emancipazione femminile e i soldi, presentati come premessa stessa della libertà».

Il sondaggio SWG indaga il livello di conoscenza finanziaria degli italiani

Se un paradosso dell’economia dice che “i soldi non fanno la felicità”, di certo averli o non averli, e il modo in cui li approcciamo, fa la differenza. Innerva tante scelte di vita, sul lavoro, in coppia, in famiglia, e mette freni o dà carburante alla nostra indipendenza. Ed è proprio questo uno dei temi del nuovo sondaggio realizzato da SWG per il nostro Osservatorio sui diritti con cui abbiamo voluto indagare il livello di conoscenza finanziaria degli italiani, il modo in cui si suddividono i compiti in famiglia e la relazione tra lavoro e genitorialità.

Donne e soldi: troppo spesso delegano al partner

La fragilità del rapporto tra la maggior parte delle donne e il denaro ha tante facce. Una di queste è il grado di competenza finanziaria così basso che persino espressioni come inflazione e potere d’acquisto risultano per molte dei concetti ambigui: più della metà non sa cosa siano o non sa spiegare come funzionino. Il 45% di chi è in coppia non ha un proprio conto corrente, perché in famiglia c’è un conto condiviso tra i partner o un solo conto di cui la donna non è intestataria. Tante, poi, delegano a compagni e mariti le decisioni finanziarie adducendo vari motivi: fa parte della suddivisione dei compiti a casa (24%) si sentono più sicure se è lui ad occuparsene (21%), pensano che sia più bravo a gestire i soldi (20%) e abbia più tempo per farlo (14%).

Donne e soldi: molte pensano di essere inadeguate a gestirli

«Questi dati non mi stupiscono, perché si rispecchiano anche nei contenuti delle audizioni che facciamo in Commissione sulla violenza economica» commenta l’onorevole Martina Semenzato, presidente della Commissione Bicamerale d’inchiesta sul femminicidio. «Le donne dichiarano di ritenersi inadeguate ad affrontare il tema economico-finanziario. Fatto salvo il condizionamento sociale, scatta però anche un auto-preconcetto: partiamo già dicendo che non sono argomenti che ci debbono interessare. Ma anche senza entrare nel tema della violenza, pensiamo alla nostra crescita come donne: dobbiamo acquisire autostima, farci un nostro conto corrente, saper leggere la busta paga, pensare alla pensione. Va fatto un lavoro di consapevolezza personale: noi non valiamo meno. Anzi, quando le donne si occupano di investimenti, mediamente sono più performanti».

Gli uomini da sempre sono stati educati a investire i soldi

Sui buoni risultati ottenuti quando “maneggiamo” la finanza – compresa la capacità di fare scelte più prudenti e sostenibili dal punto di vista sociale e ambientale – concorda Giovanna Badalassi, esperta di economia di genere, autrice con Federica Gentile di Signora economia (ed. le plurali), e del blog ladynomics.it. Che, però, avverte: «Quando parliamo di donne e denaro, ricordiamo che ci sono situazioni assai diverse a seconda, per esempio, del livello di istruzione, della professione e anche dell’area geografica dove ciascuna vive.

Certo è che storicamente gli uomini sono sempre stati educati a guadagnare e investire i soldi, le donne a spenderli: il 70-80% delle decisioni di consumo delle famiglie è ancora oggi nelle loro mani. Inoltre i posti della finanza come la Borsa sono stati creati e frequentati da uomini, è normale che le donne possano sentirsi fuori dal loro ambiente. Per la loro diversa esperienza di vita e di cura hanno un rapporto molto reale e tangibile con il denaro. Doversi confrontare con un sistema finanziario dematerializzato può disincentivare l’interesse per gli investimenti».

Donne e soldi: separarsi vuol dire dover affrontare problemi finanziari

Disinnescare questo meccanismo non è facile anche perché, come sottolinea Irene Pellizzone, professoressa associata di Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano e delegata della Rettrice per la prevenzione del fenomeno della violenza di genere, «il sondaggio mostra che per uomini e donne una fonte importante da cui imparare la basi dell’educazione finanziaria è la famiglia d’origine. In questo modo si riproducono dinamiche stereotipate che blindano le donne in una situazione di dipendenza e di incertezza. Non è un caso che per una su 2 un’eventuale separazione dal partner significherebbe dover fronteggiare seri problemi economici».

Più della metà delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza non hanno soldi propri

Conferma Martina Semenzato: «Il 62% delle donne che accedono a un centro antiviolenza non è economicamente indipendente o, se aveva qualche entrata personale, l’uomo maltrattante ha fatto in modo di controllarla. Succede spesso anche che la donna si ritrovi a fare da prestanome a società fallimentari gestite da lui. Tralasciando i casi di abusi domestici, ci sono donne che per anni lavorano nell’azienda di famiglia senza retribuzione, quindi senza contribuzione pensionistica, e prive di un conto corrente autonomo».

Se non lavorano entrambi i partner per una coppia è difficile scegliere di avere un figlio

Al fattore soldi è correlata la decisione di avere o no figli. «Oggi vengono fatte attente valutazioni economiche da parte dei giovani prima di scegliere di diventare genitori» spiega Giovanna Badalassi. «La soglia di povertà assoluta per una famiglia di 2 adulti e 2 bambini corrisponde all’incirca a uno stipendio medio. Quindi per evitare il rischio povertà, se vuoi fare un figlio, hai bisogno di 2 stipendi o, se ne hai uno solo, occorre che sia davvero solido». Come rileva il sondaggio SWG, la prima cosa che gli italiani, il 50% delle donne e il 54% degli uomini, chiedono a un lavoro è la sicurezza economica e un contratto stabile.

Tra gli altri desiderata per le donne ci sono gli orari flessibili e la vicinanza a casa, per gli uomini gli orari flessibili e la valorizzazione delle competenze. Interessante notare che per la Gen Z conta, sì, la sicurezza economica ma “solo” per il 44%, mentre interessano a più di uno su 5 la meritocrazia, le opportunità formative, l’ambiente umano e supportivo e il 15% vuole poter fare qualcosa di utile per la società ma anche ottenere prestigio e successo.

Molte donne quando diventano madri lasciano il lavoro

Cosa succede, quando da dipendente di un’azienda si decide di avere figli? La maggior parte degli intervistati, ben oltre il 60% di uomini e donne, afferma che, pur avendo avuto figli, non ha incontrato ostacoli alla propria crescita professionale. Tuttavia nel 22% dei casi sia madri sia padri hanno subito demansionamenti o hanno dovuto ridurre il loro orario. A quasi metà delle donne con figli è capitato di sentire altre persone sminuire il “mestiere di madre” rispetto al lavoro stipendiato, il 32% ha provato solitudine durante la maternità e il 57% sceglie di mettere il lavoro in secondo piano dopo la nascita del bambino. «La decisione della donna di stare a casa a occuparsi del proprio figlio non è sempre e solo legata a stereotipi di genere» avverte Giovanna Badalassi.

Non in tutti i casi conviene alla madre lavorare e lasciare il figlio alla baby sitter

«Spesso intervengono argomentazioni molto concrete e, tra queste, diventa dirimente la qualifica professionale. Se è bassa, può non convenirle pagare una baby sitter per continuare a fare un lavoro poco remunerativo, che potrà poi comunque ritrovare una volta che il figlio sarà cresciuto. Se invece ha una qualifica alta e sta a casa, rischia di finire fuori dal giro e di non trovare più un’occupazione adeguata al suo profilo al rientro. In quel caso ha senso dare tutto lo stipendio alla baby sitter per non perdere il vantaggio competitivo sul mercato del lavoro».

Per molte è difficile raggiungere un buon work-life balance

L’arrivo di un figlio ha un forte impatto sui carichi familiari e, di conseguenza, sul meccanismo – arduo da costruire e mantenere – del work-life balance. «I risultati del sondaggio mi hanno sorpresa perché in più punti emerge un disallineamento tra ciò che affermano le donne e gli uomini» commenta Alessia Cappello, assessora allo Sviluppo economico e alla Politiche del lavoro del Comune di Milano. «Oltre 1 donna su 4 ritiene sbilanciata la divisione dei compiti in famiglia, mentre per 9 uomini su 10 risulta bilanciata o comunque funzionale.

Ben 7 donne su 10 dicono di essere perlopiù loro a occuparsi delle faccende domestiche, mentre quasi metà degli uomini sostiene di farlo insieme alla partner o di alternarsi. Inoltre il 50% delle donne afferma di occuparsi prevalentemente dell’educazione dei figli, mentre solo 9% degli uomini dice di farlo perlopiù lui. Al tempo stesso, il 78% dichiara di farlo insieme alla partner o in alternanza a lei. Si nota con piacere il cambio culturale in corso, visto che molti dicono di gestire i compiti insieme, però emerge un distacco forte tra la percezione degli uomini e ciò che accade nella realtà».

Se c’è un’emergenza a casa è la donna a farsene carico

C’è poi un’altra voce che invita a riflettere: quando scatta una emergenza familiare legata alla gestione di figli o parenti, nel 38% dei casi è soprattutto la donna a farsene carico. «Spesso è vero che non c’è un’alternativa vera, ma molte hanno paura di un giudizio negativo se non sono in prima linea. Temono cioè di essere cattive figlie e cattive madri» dice Irene Pellizzone. «Nel sondaggio emerge poi chiaramente che per chi lavora è complicato gestire professione e figli, ma lo è ancora di più se ci sono anziani da accudire. Un argomento, questo del care giving, ancora sottotraccia nel dibattito pubblico, però molto significativo».

C’è chi critica i padri che chiedono il congedo di paternità

Anche il tema dei congedi richiesti alla nascita di un figlio fa riflettere. Il 20% dei padri afferma che la propria azienda accetterebbe, la sua richiesta di congedo di paternità, ma gli chiederebbe la reperibilità. Per 6 intervistati su 10 il congedo di paternità è troppo corto ma, a differenza delle madri, un padre che beneficia del congedo è visto come un approfittatore da 1 italiano su 4 (donne comprese). «Anche nel caso dei congedi di paternità c’è un positivo cambiamento culturale in corso, che è più evidente nelle multinazionali dove da anni si applicano policy a favore della genitorialità» dice Alessia Cappello.

«L’Italia è però fatta soprattutto di micro-imprese dove, invece, si va più a rilento e gli ostacoli sono ancora tanti». Sulla fatica a riconoscere il ruolo del padre nell’accudimento del bambino commenta Irene Pellizzone: «Se il padre deve sempre lavorare, si imposta un tipo di relazione sbilanciata per cui la figura importante per l’attaccamento tra figlio e genitore è solo la donna. Ma così si frustra la parte emotiva dell’uomo. Lui deve essere il “macho” e, se chiede il congedo di paternità, appare un fragile».

Oggi il congedo di paternità è troppo corto

Come agire sul fronte normativo? «L’attuale congedo di paternità a 10 giorni è ridicolo. Bisognerebbe estenderlo e renderlo uguale a quello obbligatorio di maternità, che è di 5 mesi» risponde la giurista. «Questa misura richiederebbe risorse al bilancio dello Stato, ma avrebbe un grande impatto: i primi anni di vita sono fondamentali per la creazione di un equilibrio di ruoli all’interno della famiglia. Come succede nei Paesi scandinavi, servirebbe prevedere un incentivo ai padri che chiedono i congedi. Per esempio, se l’uomo lo prende, permettere poi alla coppia di beneficiare di un mese in più. Il congedo va costruito in modo attento al contesto culturale in cui viene utilizzato». S

u questo snodo si sofferma l’onorevole Martina Semenzato: «Si parla sempre di obbligatorietà dei congedi parentali, ma l’obiettivo dovrebbe essere quello di avere una cultura tale per cui è l’uomo che dice alla donna “Ti sostengo”, in un modo spontaneo che parte dalla cultura del rispetto». Proprio quella verso cui si dovrebbe tendere, ma la strada da percorrere è – lo vediamo tutti i giorni – ancora accidentata.

Con la collaborazione scientifica di Università degli Studi di Milano, Fondazione Libellula, H-Farm, MyEdu, Valore D

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