Serve un po’ di Fotinì, quando le tenebre s’addensano. Con quel nome che impasta timbri ellenici e nostrani, luce e materia, Fotinì (luminosa, nel greco parlato da metà dei suoi geni) Peluso, 26 anni, una scia di ruoli indelebili, da Cosa sarà a Il Colibrì, da La compagnia del Cigno a Tutto chiede salvezza, sprigiona un’aura da promessa mantenuta nella notte nera di Mani Nude, il nuovo film di Mauro Mancini, tratto dal romanzo di Paola Barbato, al cinema dal 5 giugno. E di questo film ci parla nella nostra intervista.
Fotinì Peluso nella nostra intervista ci parla di Eva, il suo personaggio in Mani Nude

Il suo personaggio, Eva, una barista di cui il protagonista s’innamora, appare dopo un’ora di sevizie e scazzottate all’ultimo fiato come il bagliore nel buio di una discesa agli inferi della condizione umana, una boa tra rotte di solitudini, in cui il giovane Francesco Gheghi e Alessandro Gassmann prestano corpi e sudore a due anime in trincea tra redenzione e dannazione. «Partecipare a questo film è stata un’esperienza forte» spiega l’attrice da Siracusa, dove sta interpretando Antigone in L’Edipo a Colono di Robert Carsen. «Soprattutto per Francesco e Alessandro: quando li ho raggiunti, venivano da due mesi di set dentro una stiva in Bulgaria, erano provati».
Il suo arrivo è per il personaggio di Gheghi, rapito e costretto a combattimenti clandestini, la via di fuga da un’esistenza da predestinato.
«Eva è una persona positiva, pura. Mi piace l’amore incondizionato che prova, intuisce che in lui c’è un malessere, che c’è qualcosa di storto nel legame col personaggio di Gassmann. Al regista ho chiesto che questo aspetto fosse chiaro: Eva in qualche modo sa, ma non indaga, sceglie di affidarsi e basta. È commovente ed è una prova affascinante, per una come me che ha la tendenza a voler sapere tutto e subito».
Siamo prigionieri del nostro destino, si chiede il film. Lei che risponde?
«Non credo che tutto sia scritto, credo piuttosto che ciascuno di noi trasmetta una serie di energie, che a loro volta ne attraggono altre, intrappolandoci spesso in circoli viziosi. È un tratto legato all’ambiente in cui cresciamo, a ciò che impariamo in famiglia.
Ma non voglio rassegnarmi all’idea che non ci sia redenzione o via d’uscita».
Questione di scelte?
«Certo, anche se da ciò che ci accade intorno, sembra di capire che siamo più attratti da quelle sbagliate. Questa storia racconta come sia facile, per fragilità o per incuria, ritrovarsi nei panni del carnefice, ci interroga una volta di più sul tema della banalità del male».
Fotinì non perdona, nemmeno se stessa
Chiama anche in causa il perdono. Le è familiare?
«Non sono particolarmente rancorosa, ma nemmeno incline a perdonare: è un atto radicale. Invocare perdono non corrisponde a un’assunzione di responsabilità come il chiedere scusa. Non vuol dire che se io non perdono, tutto sia perduto, ci sono tante persone nella mia vita che non ho perdonato e a cui voglio comunque bene».
Non perdona neanche se stessa?
«Assolutamente no. Anzi, se possibile, mi fustigo».
Per cosa?
«Per tutte le volte in cui ho sentito che qualcosa intaccava la mia libertà e ho lasciato correre. Non ho la tendenza a rendermi succube delle situazioni, solitamente reagisco. È capitato però che per tener fede a certe scelte sia scesa a compromessi e abbia sentito di non rispettarmi abbastanza, incrinando la mia consapevolezza di donna forte, indipendente, portandomi a sguazzare tra i sensi di colpa».
Al Teatro Greco di Siracusa, Fotinì Peluso interpreta Antigone
Chi risponde drasticamente ai sensi di colpa è Antigone, che lei sta portando in scena al Teatro Greco di Siracusa nell’Edipo a Colono.
«Qui Sofocle mette in scena l’Antigone meno nota, prima che la scelta di contravvenire alle leggi per dare sepoltura al fratello la trasformi in un’eroina disobbediente, come in un’altra sua tragedia, l’Antigone, appunto. Là è un personaggio a tutto tondo. Qui è più immatura. Ma io la difendo: nella sua immaturità, incarna la voce della saggezza della tragedia. Orienta non solo Edipo, ma tutti i personaggi. Ci insegna a guardare oltre l’atto passivo del vedere. Accompagna il padre verso la morte, metaforicamente e fisicamente, confrontandosi in modo toccante col tema dell’accettazione della fine».
È qualcosa che la tocca?
«Sì, una cosa che affronto sempre malissimo, tra quelle in cui me la cavo peggio nella vita: va di pari passo con la paura dell’abbandono, del lasciar andare, dell’essere lasciati andare. Non a caso, cerco personaggi che possano provocare delle catarsi dentro di me, che provino a cambiarmi le rotelle. Metabolizzo con grande difficoltà e lentezza l’idea di una vita che muore, ma anche la fine di un amore mi sembra contro natura: in fondo, è sempre una violenza recidere un legame che hai vissuto con grande intensità. Nelle amicizie me la cavo meglio, sono costante, più brava a mantenerle, anche perché abitudinaria».
È la sua prima volta a teatro, un battesimo solenne.
«Solenne è soprattutto la mia paura. Quello con Robert Carsen, che mi ha concesso la sua fiducia, è stato un incontro meraviglioso. A posteriori, mi rendo conto di non essermi mai sentita un pesce fuor d’acqua sui set. A teatro, invece (e che teatro), ci sono una serie di abilità che non puoi camuffare; l’impatto immediato col pubblico chiama in causa un aspetto del lavoro d’attrice che è molto tecnico, va al di là del talento o della bravura, talvolta innati. Lì devi studiare: con un pubblico così grosso, in uno spazio immenso, se non ti proponi in un certo modo, se non imprimi una direzione alla voce, non s’accorgono nemmeno che stai parlando. È stato un lavoro gigantesco in un mese e mezzo: considerando che non ho mai fatto teatro, o un’accademia, ho imparato cosa sia il rigore, lo studio della psicologia del personaggio tra battute e movimento».
Sempre più spazio alle donne nel cinema italiano
È stata tra i primi attori premiati con il David di Donatello Rivelazioni. Quest’anno c’erano molte attrici giovani anche nelle cinquine tradizionali.
«Finalmente comincia a esserci più spazio per noi nei ruoli da protagonista. Fino a qualche anno fa sembrava ci fossero solo i ragazzi. Non a caso si tratta di storie raccontate da donne, che hanno dominato i David di Donatello anche nelle categorie di regia e sceneggiatura, sono molto fiera di loro: lottano per noi e per tutte le altre e, dopo 70 anni di Accademia del Cinema,
hanno vinto perché raccontano storie dirompenti, imprimendo un cambiamento reale, profondo, non un restyling di facciata».
Bellezza è sentirsi bene nella propria pelle
Coltivare la propria immagine, la bellezza, è ancora un requisito dirimente per un’attrice?
«Penso di no. Se posso essere onesta, ultimamente mi sono guardata allo specchio davvero poche volte. Soprattutto quando lavoro, l’appuntamento con questo confronto è quasi ingombrante. Ho capito che non è una cosa che cerco. Poi, per carità, ci sono giorni in cui mi sveglio o esco con gli amici e mi fa piacere, non tanto attrarre gli sguardi, ma sentirmi bene nella mia pelle. Non è poi questa libertà la vera bellezza?».