Incontro Valeria Golino a pochi giorni dai David di Donatello, trionfante per i 3 premi vinti per L’arte della gioia, e alla vigilia della partenza per Cannes, dove è in Concorso con Fuori, il film di Mario Martone su Goliarda Sapienza di cui è protagonista. Ha gli occhi che le ridono. Un’allegria leggera ed elettrica, che le dà un’aria da ragazzina. Di statuette, tra le 14 nomination per la prima serie tv mai portata in gara, ne meritava anche qualcuna in più, ma il riconoscimento più grande già ce l’ha. È quello dei colleghi, del suo mondo, nel quale da tempo non è più solo l’attrice talentuosa e navigata ma la regista che non sbaglia un colpo. E, soprattutto, quello della gente, che grazie a lei ha conosciuto uno dei romanzi più belli del ’900 – rimasto per oltre 20 anni nel cassetto, respinto dalle case editrici – e che ora scopre anche la sua autrice, un’intellettuale scomoda e riluttante. Una ragazza selvaggia, come la Modesta a cui ha dato vita. Renitente alle regole, difficile da addomesticare.
Essere Goliarda Sapienza
Com’era nella realtà Goliarda Sapienza? So che ha avuto occasione di conoscerla e frequentarla.
«Me la presentò nell’85 Citto Maselli, suo ex compagno, quando mi scelse per Storia d’amore, un film fondamentale per la mia carriera di attrice. Dovevo interpretare una giovane di borgata e lei, che allora insegnava al Centro Sperimentale, doveva aiutarmi a mascherare la mia leggera inflessione napoletana sporcandola di romanità. Andavo quasi tutti i giorni a casa sua, che poi è la stessa del film, quella in cui ancora vive il marito Angelo Pellegrino. Un appartamento incredibile, arroccato su un terrazzo dei Parioli, così alto da guardare le cime degli alberi.
Ricordo che lei mi accoglieva in vestaglia, sempre un po’ spettinata, mi chiedeva di me, mi dava un cioccolatino o un dolcetto. Era molto affettuosa, curiosa della mia vita, delle mie origini greche».
Si sentiva in soggezione?
«No. Sapevo che era una scrittrice, ma avevo solo 18 anni e lei era una signora di mezza età, con la sua sigaretta, il suo caffè, non mi rendevo conto della grandezza e della sovversione che si portava addosso. Oggi ho un po’ il rammarico di non aver approfondito quella conoscenza, ero troppo giovane e distratta da altro per capire il privilegio di quel rapporto così privato e personale. So che poteva essere irascibile e proterva, ma non con me, non ho mai visto quella parte. Infatti la mia Goliarda attinge al ricordo “morbido” che ho di lei. Quando l’ho conosciuta aveva già vissuto l’esperienza in carcere che racconta il film».

Valeria Golino a Cannes con Fuori di Mario Martone
Un anno fa presentava L’arte della gioia a Cannes, ed è stato un successo. Che effetto le ha fatto tornare al Festival, con l’unico film italiano in Concorso, nei panni dell’autrice del libro? Una curiosa coincidenza…
«Il “circo” dei festival è faticoso, a volte mi pesa, ma è sempre bello partecipare. Martone aveva in mente da tempo di fare un film su Goliarda ma, quando ha provato a comprare i diritti del romanzo, ero già arrivata io. Non siamo i soli ad aver messo gli occhi su quell’opera, è stata una fortuna per me acquistarla al momento giusto. Ma era necessario raccontare anche il personaggio scomodo che c’era dietro, e Mario ci è riuscito benissimo».
Quest’anno ricorrono i 100 anni dalla nascita di Goliarda, femminista atipica e solitaria, artista poliedrica, figura scandalosa. Come mai la scelta di raccontare solo un frangente della sua vita, quando finisce in carcere per aver rubato i gioielli di un’amica e ne esce trasformata?
«Mario non voleva fare una biografia. Inizialmente era interessato a raccontare l’amore con Angelo Pellegrino, di oltre 20 anni più giovane di lei, cosa mal vista ai tempi. Ma quando ha iniziato a lavorare al soggetto con Ippolita Di Majo, sua moglie e cosceneggiatrice, che stava leggendo L’università di Rebibbia, questo momento della sua vita è venuto fuori con prepotenza. In questa fase Goliarda è una donna di 55 anni, indigente, sola, anche se ha un marito, Angelo, che la adora, però è un giovane attore agli esordi, non può mantenerla. In prigione trova un’umanità vera che la accoglie. È “storta” come lei, ma è capace di prenderla così com’è, senza dare giudizi».

Valeria Golino è Goliarda Sapienza nel periodo del carcere
Il mondo dei salotti intellettuali e borghesi non la vuole più e anche lei si è stufata, ha bisogno di autenticità. La cerca tra gli ultimi: le detenute, le reiette, le poco di buono. Come hanno fatto Alda Merini e Pierpaolo Pasolini. È solo lì che si trova la “vera umanità”?
«Goliarda era diventata insofferente al progressismo di facciata. Lo sentiva finto. Del resto anche lei, che non aveva un carattere facile, veniva ormai mal tollerata da quell’ambiente, tanto più dopo il furto, quando aveva perso decoro e status. Il carcere, in cui è stata in realtà solo pochi giorni, è stato per lei una scoperta sorprendente, un contesto più libero del mondo fuori, senza sovrastrutture. Detto questo, io credo che l’autenticità si trovi anche altrove, non solo nel proletariato che sopravvive e che si arrangia, e a volte viene un po’ mistificato. Io, nel mio cinema, l’ho spesso tirata fuori da personaggi borghesi che dietro la corazza di perbenismo o, al contrario, di scorrettezza, persino di immoralità, nascondono una frattura, una grandezza d’animo inaspettata».
Il coraggio non è non avere paura
L’altra figura forte del film è Roberta, egregiamente interpretata da Matilda De Angelis, l’ex detenuta che Goliarda cerca quando esce di galera. È una ragazza balorda e irruente, ma a suo modo “perbene”. È realmente esistita?
«Assolutamente sì. Con lei stringe un rapporto fatto di complicità e trasgressione. Scombinato come loro, sempre in bilico, ma in fondo benefico e disinteressato».

È come se in questo film avesse tolto il suo ego di attrice per darsi senza riserve. C’è una scena, bellissima, in cui si mostra nuda con grande onestà.
«Mi fa piacere che lo pensi. Ci sono due parti di me, una vanitosa, che vuole essere ancora piacente. E un’altra, più forte, in cui prevale l’artista, per cui il corpo è uno strumento di lavoro. Volevo che in quella scena fosse chiaro com’è realmente una donna di 55 anni, una che non posa, non vuole mostrarsi diversa da ciò che è, se ne strafotte di essere desiderabile.
È un tipo di onestà che può fare paura. Ma il coraggio nel nostro lavoro è questo: avere paura di qualcosa, ma farla lo stesso. Vale anche nella vita».
Valeria Golino: ho un debole per le donne che sbagliano
Ha un debole per le ragazze che sbagliano sapendo di sbagliare.
«Libere nel torto, come dice Modesta».
Le piacciono perché le somigliano?
«I personaggi che non sono edificanti, che portano dentro una contraddizione, la magnanimità legata alla ferocia, mi interessano sempre, che siano maschi o femmine. Hanno qualcosa dentro che istintivamente ti fa girare dall’altra parte ma, se riesci a non distogliere lo sguardo, quasi ti commuove. Naturalmente questo elemento sulle donne assume un significato diverso, soprattutto in un momento storico in cui siamo diventate più consapevoli del peso culturale che il patriarcato ha imposto sulle nostre vite. Ma il fatto di essere considerate portabandiera solo di quel messaggio lì mi mette un po’ a disagio. Personalmente non mi sono mai sentita vittima, pur essendomi trovata in situazioni sgradevoli, come tutte. Però non mi piace l’idea di essere relegata in quella scatola. Per questo, poter parlare di donne nella loro complessità, mostrando luci e ombre, come fa Modesta, che viene stuprata dal padre, ma è capace di crudeltà e benevolenza insieme, o come Roberta, che flirta con l’uomo che le fa comodo perché l’amore può anche essere opportunista, penso sia necessario. Ci restituisce qualcosa».
Un tema forte del film è la sorellanza, grazie alla quale ci si salva a vicenda. C’è un momento della vita in cui l’amicizia femminile diventa fondamentale, persino più importante dell’amore?
«Anche quella è una forma d’amore. Tanto più importante quando si va avanti con l’età. In giovinezza l’amicizia è diversa, magari vitale ma più complicata, di superficie, perché – parlo per me – gli uomini sono il pensiero dominante. Col passare degli anni, le persone più interessanti che mi è capitato di incontrare, con cui mi piace stare e creare legami di amicizia, di “famiglia” sono donne. Forse perché ci si riconosce, è la nostra fragilità che mettiamo nelle loro mani. Non è un caso che le mie coautrici siano anche mie amiche, con loro posso parlare di tutto, senza vergogna. Poter contare su figure così vicine e affidabili, soprattutto per me che non ho figli, è rassicurante.
Pur avendo avuto sempre storie d’amore lunghe, le relazioni con le amiche restano quelle più durature. Un bel conforto per il futuro. Davvero un salvarsi insieme».
Il set è un campo magnetico
È la prima volta che lavora con Martone?
«Sì, ed è stato bello. Ci sono tante connessioni che si sono create, senza che ce lo dicessimo, tra la sua visione di Goliarda e la mia. Mi sono sentita guidata e voluta bene».
È quello che dovrebbe sempre fare un regista.
«Un attore deve potersi sentire libero e protetto».
Come accade ai suoi, immagino. Tecla Insolia si è messa nelle sue mani e lei l’ha suonata come uno strumento, tirando fuori note che forse neanche sapeva di avere.
«E pensi che quando si è presentata al primo provino mi sono detta: “Questa di sicuro non la prendo”. Avevo in mente un’altra fisicità per quel ruolo, più zingara, più tipicamente del Sud, anche se lei è siciliana. Invece, quando è tornata, ho iniziato a ricredermi. Finché mi ha totalmente irretito e, anche se la produzione non era convinta, ho fatto di tutto per averla. Le ho detto di aspettare e di fidarsi. Senza di lei, che ha costruito una Modesta cangiante, piena di sfumature, feroce e tenera, vecchia e bambina, bruttina in certi momenti e subito dopo sensuale e bellissima, la serie non sarebbe riuscita così bene. Ha un talento portentoso, che ha svelato piano piano. Io mi sono innamorata di lei».
Si coglie questo amore. C’è una specie di erotismo, inteso non in senso sessuale ma di tensione, tra lei e le sue interpreti. Come un campo magnetico. È così?
«È così. Questa tensione c’è perché è necessaria al nostro lavoro. E non ha niente a che vedere con l’abuso di potere. Con le regole e l’oscurantismo che sta ammazzando l’arte. La tensione erotica è vitale, dà respiro ai personaggi. Naturalmente si crea anche con i miei attori maschi. Pensiamo a quanto Carmine, cioè Guido Caprino, è stato prezioso nel portare nella storia una virilità antica, senza fronzoli, mai morbosa. La morbosità è una cosa che mi infastidisce e mi annoia. È anti-erotica».
Valeria Golino: al cinema mancano le belle storie d’amore
Il cinema di oggi è più o meno libero di ieri?
«Meno. A parte certi film di provocazione e sregolatezza estrema in cui non mi riconosco. In generale mi sembra che i registi di ieri fossero molto più spregiudicati e poetici, a noi ci hanno incastrato nel prodotto. Dobbiamo fare cose che funzionano, non c’è spazio per osare e sperimentare».
Si è perso anche un po’ il romanticismo. Che fine hanno fatto i film d’amore?
«Ha ragione, me lo ha fatto notare Louis Garrel parlandomi di un film fatto con suo padre Philippe. Troppo romantico oggi per essere capito, mi ha detto. Oggi i film sono moralisti e cinici, mancano le belle storie d’amore. Mi piacerebbe molto riuscire a farne una».
La bellezza di essere in potenza

Che peso ha l’amore nella sua vita?
«Grande. Ma da qualche anno in qua la mia libido è proiettata principalmente sul lavoro. Lo dico con rammarico, pur avendo da 8 anni una relazione con un uomo con cui sto bene e che amo. Però è così, sono meno appassionata di un tempo nella vita privata, avendo trasferito nella professione gran parte della mia passione».
È felice?
«È un buon momento. Mi sento vitale, viva, ma ancora non ho trovato il modo di accettare il fatto che sto invecchiando. Non ho scavallato, non ho imparato a fregarmene. Mi piaccio di meno e questo mi leva forza.
Mentre intellettualmente mi sento sempre più aderente a quello che sono, esteriormente non mi somiglio più, mi guardo allo specchio e non mi riconosco. Se posso, mi evito».
Ha fatto più di cento film, è un’attrice e regista stimata in Italia e all’estero: si sente realizzata?
«Essere realizzata non è qualcosa a cui ambisco, perché mi “finisce”. Preferisco sentirmi in potenza, coltivando quell’irrequietezza che è un po’ nella mia natura e un po’ ideologica. Non ho la soddisfazione della realizzazione, non la voglio. Sennò, poi, che faccio?».