I picchi di caldo (o di freddo) possono far male alla salute, ma soprattutto aumentano il rischio di alcune patologie, soprattutto ictus e malattie neurologiche. A dirlo sono diversi studi, ai quali se ne aggiunge uno italiano che ha indagato gli effetti dei cambiamenti climatici sulle demenze e in particolare l’Alzheimer.

I cambiamenti climatici aumentano i rischi di ictus

L’impatto dei cambiamenti climatici è sotto gli occhi di tutti. Ma gli effetti non riguardano solo gli effetti sull’ambiente, ma anche sulla salute. Secondo uno studio condotto dall’University College di Londra, pubblicato su Lancet Neurology, c’è un rapporto tra l’aumento delle temperature, gli eventi climatici estremi e la salute del cervello. I ricercatori, infatti, hanno esaminato 332 articoli scientifici internazionali su questo tema, realizzati tra il 1968 e il 2023. La prima conclusione alla quale sono arrivati è che si è registrato un aumento di ingressi in ospedale, disabilità e mortalità dovuti a ictus nelle zone colpite da ondate di calore e temperature più elevate.

Il caldo “fa male” alla salute

I dati, dunque, indicano una crescita (pari al 7%) soprattutto di malattie legate agli effetti del caldo. Perché? «Il dato è certamente importante, ma le cause di questo incremento sono certamente molteplici e non tutte note», premette Elio Scarpini, Professore di Neurologia presso l’Università di Milano Ospedale Maggiore Policlinico, già Direttore del Centro Alzheimer e Sclerosi Multipla “Dino Ferrari” dell’ateneo. «Probabilmente – prosegue il neurologo – influiscono la disidratazione e gli squilibri ido-elettrolitici, che comportano un danneggiamento a livello cellulare e molecolare».

Gli effetti del caldo sul cervello

Ma a “soffrire” non è solo il cuore. Gli esperti hanno notato un incremento e un peggioramento anche delle malattie neurologiche. Il motivo sembrerebbe legato al fatto che il caldo interferisce sulla qualità e quantità di sonno, che rappresenta un fattore protettivo per la salute del cervello. «La carenza di sonno rappresenta un fattore di rischio – ma anche una conseguenza – di depressione, ansia e decadimento cognitivo. Peraltro tutti sappiamo che il caldo notturno ostacola la qualità e la quantità del sonno e per questo motivo moltissimi ricorrono al condizionamento della temperatura ambientale», conferma Scarpini.

La conferma di una preoccupazione generale

In effetti gli studi più recenti hanno confermato indicazioni generali che erano già emerse da precedenti analisi. «Le evidenze dello studio rappresentano una accurata analisi dei risultati dei numerosi articoli scientifici di tipo epidemiologico finora pubblicati sull’argomento». Tra le ricerche più importanti c’è quella italiana condotta lo scorso anno dall’Università di Trieste, in collaborazione con l’Environmental Neurology Speciality Group della World Federation of Neurology. I ricercatori italiani avevano osservato come pazienti con malattie neurodegenerative e in particolare con Alzheimer sono particolarmente vulnerabili perché meno in grado di mantenere una temperatura corporea costante. Inoltre, l’aumento delle temperature potrebbe favorire disidratazione e infezioni in soggetti fragili.

La fascia di età più a rischio

Oltre alle patologie in questione, a influire è anche il fattore età, come spiega Scarpini: «L’aumento della temperatura comporta la disidratazione, più frequente negli anziani nei quali il senso della sete è spesso ridotto. La disidratazione, spesso in associazione con febbre, abuso di farmaci tipico dell’età avanzata, ecc., può portare a stati confusionali allucinatori. Sono comunque condizioni reversibili, con una pronta correzione delle cause».

Attenzione anche a freddo e sbalzi di temperatura

Attenzione, però, a limitarsi a considerare solo gli sbalzi di temperatura verso l’alto, quindi verso temperature in crescita. Anche il freddo estremo, infatti, potrebbe avere qualche effetto negativo. «Una bassa temperatura ambientale comporta una riduzione delle difese immunitarie, con il rischio di sviluppare infiammazioni a livello di faringe, bronchi e polmoni, potenzialmente severi in soggetti fragili come gli anziani», sottolinea il neurologo.

Il corpo fatica ad adattarsi

In un clima che sembra soprattutto essere sempre più caratterizzato da sbalzi di temperature, è più difficile, quindi, per l’organismo umano adattarsi. Questo fenomeno, poi, si aggrava in caso di patologie pre-esistenti e, in particolare per quelle di natura neurologica o cardiaca. «Adattarsi alla situazione ambientale richiede indubbiamente delle risorse, che sono purtroppo ridotte nei soggetti fragili come gli anziani e i pazienti immunodepressi in generale», conferma Scarpini.

Gli altri fattori di rischio ambientale

Il fatto che il clima muti, inoltre, rende indispensabili interventi in emergenza che diventano sempre più frequenti, come nel caso di inondazioni o incendi. Questo comporta anche un adattamento nei comportamenti, che può essere più difficile per chi soffre di particolari patologie. Oppure, semplicemente, rende fondamentali alcuni accorgimenti, come una maggiore assunzione di acqua, che nei pazienti con demenze non sono così immediati. «Per quanto riguarda le demenze e la malattia di Alzheimer, infatti, un peggioramento cognitivo fino allo stato confusionale reversibile (detto “delirium”) è proprio dovuto alla disidratazione, alla mancanza della sete, alla compromissione della termoregolazione, ai disturbi idro-elettrolitici, alle infezioni urinarie e bronco-polmonari citati come principali fattori di rischio legati anche ai cambiamenti climatici».

Più rischi anche per le patologie psicologiche

Non va poi dimenticato l’impatto dei cambiamenti climatici sul fronte della salute mentale, con un maggior rischio di andare incontro a stati di ansia o depressione. Non a caso si parla sempre più spesso di “eco-ansia”, anche nei bambini. «Gli studi epidemiologici hanno dimostrato chiaramente che un incremento della temperatura ambientale determina un aumento del numero di ricoveri in ospedale psichiatrico e dei disturbi psico-comportamentali, specie in soggetti predisposti. Tuttavia il meccanismo non è stato ancora chiarito, per cui ulteriori studi in questa direzione sono assolutamente necessari», conclude l’esperto.