Spiare WhatsApp altrui è reato, come la posta elettronica. Ma lo è anche cercare di estrarre i messaggi tramite screenshot, come ha fatto un uomo che sperava di “incastrare” la ex nella causa di separazione. A stabilirlo è stata una sentenza della Cassazione, che ha in qualche modo avvertito: non importa il motivo, ma curiosare tra le chat altrui può costare fino a 10 anni di carcere.
Spiare WhatsApp del partner è reato
Come riporta il Messaggero, la Cassazione ha respinto il ricorso di un uomo che era già stato condannato in appello per aver estratto alcuni messaggi WhatsApp della ex moglie, a insaputa di lei, violando la password di un cellulare di lavoro e di quello privato. Il caso riguardava, infatti, una coppia in fase in separazione, avvenuto a Messina, in Sicilia. L’uomo aveva effettuato screenshot dei registri delle chiamate della ex e di alcune conversazioni scritte, per affidarli al proprio legale e utilizzarli nella causa giudiziaria.
Vietato controllare il cellulare altrui
L’uomo già in passato era stato denunciato dalla moglie per molestie e comportamenti ossessivi: nel 2022, infatti, la moglie lo aveva accusato di controllarle il cellullare. Ma non era bastato, dal momento che successivamente era arrivata anche la querela per aver «estratto, da un telefono cellulare che utilizzava per lavoro e che non trovava più da tempo, diversi screenshot dal registro chiamate e dalla messaggistica, consegnandoli al suo legale, il quale li aveva prodotti in sede di giudizio civile, ai fini di addebito della separazione».
Spiare WhatsApp: la sentenza della Cassazione
Arrivati in tribunale e dopo le condanne nei primi gradi di giudizi a carico dell’uomo, quest’ultimo si era rivolto alla Cassazione, ma i giudici hanno respinto il suo ricorso affermando che aveva «arbitrariamente invaso la sfera di riservatezza della moglie attraverso l’intrusione in un sistema applicativo» e così dandogli torto. Secondo gli ermellini, infatti, WhatsApp è a tutti gli effetti un «sistema informatico», quindi curiosare tra i contenuti o cercare di venirne in possesso, come aveva fatto l’uomo, rappresenta una violazione.
Cosa si rischia a spiare WhatsApp
Nello specifico il reato prevede una pena fino a 10 anni di reclusione. «Entrare in un sistema informatico altrui, che sia WhatsApp o una email, è come entrare senza permesso a casa d’altri, forzando la serratura, buttando giù la porta o anche solo tentando di azzeccare la password, che è un po’ come la combinazione dell’allarme», spiega l’avvocata Marisa Marraffino, esperta di diritto informatico. «L’illecito rientra tra i reati che hanno a che fare con l’inviolabilità del domicilio, che è un diritto costituzionale previsto dall’articolo 14 della Carta», aggiunge l’avvocato.
WhatsApp ed email come la casa: vietato entrare senza permesso
Come scrivono i supremi giudici, infatti, WhatsApp è «un’applicazione software progettata per gestire la comunicazione tra utenti attraverso messaggi, chiamate e videochiamate, utilizzando reti di computer per trasmettere i dati, combinando hardware, software e reti per offrire il suo servizio». L’accesso, quindi, è consentito solo al legittimo proprietario, a maggior ragione se ne ha impostato una password come nel caso specifico. Anche su questo aspetto, però, va fatta chiarezza.
La password del proprietario non basta
Ricevere la password una volta, per un motivo specifico, non significa poterne disporre per sempre a piacimento. «Se il proprietario della chat o email ha dato il consenso in una specifica occasione a leggere alcuni messaggi o controllare la posta elettronica, magari perché impossibilitato a verificare un contenuto urgente, questo non significa essere autorizzati all’accesso anche successivamente, in autonomia e ogniqualvolta si voglia», conferma Marraffino, mentre la Cassazione ha ribadito: «Sussiste il reato contestato, poiché la protezione del sistema era stata assicurata attraverso l’impostazione di una password».
Si possono usare i messaggi WhatsApp come prove?
In alcuni casi, però, si sono utilizzate schermate di conversazioni telefoniche come prove in sede di processo: «Si può fare, ma solo in casi specifici, per esempio se occorre dimostrare un credito o se si è vittime di una truffa, ma soprattutto solo se si è destinatari dei messaggi – sottolinea Marraffino – Oppure se i messaggi rappresentano il corpo del reato, come nel caso di molestie, ma sempre se si è il destinatario». Occorre prestare attenzione, invece, ai reati nei quali si può incappare se si condividono messaggi, anche tra colleghi sul posto di lavoro.
Spiare WhatsApp: il rischio di diffamazione
«Ultimamente è molto frequente l’abitudine di condividere messaggi sui social, spesso per svergognare qualcuno, che sia un collega o un conoscente, ma attenzione perché non si può fare. Neppure girare conversazioni a parenti (il classico caso dei suoceri se si tratta delle chat con il partner), per mettere in cattiva luce una persona terza o per vendetta: si rischia di commettere il reato di trattamento illecito di dati personali o diffamazione. Questa avviene quando si condividono messaggi con almeno due persone, all’insaputa del soggetto a cui fanno riferimento. Se, invece, quest’ultimo è presente nella chat allora si parla di ingiuria», avverte l’avvocato.
Le prove devono essere “legali”
Nel caso siciliano su cui si è pronunciata la Cassazione, invece, il tentativo dell’uomo era di presentare prove contro la ex moglie ai fini della causa di separazione. «Attenzione, però: le eventuali prove devono sempre essere acquisite in modo lecito. Se si tratta, per esempio, di adulterio va ricordato che esistono vie legali, come il ricorso a un investigatore privato che è autorizzato a fare indagini. Va anche detto che ormai anche l’adulterio non è più un motivo frequente di addebito di colpa: è più importante dimostrare, per esempio, che è venuta meno la comunicazione o la fiducia, più che portare in tribunale eventuali messaggi in chat», osserva Marraffino.
Tenere a freno la curiosità
Di certo la curiosità va tenuta a freno: «Altri casi frequenti sono quelli di chi magari frequenta siti di dating online, come Tinder, e frequenta persone che utilizzano nickname o nomi falsi: il desiderio di conoscerne la vera identità è molto forte ed è capitato che qualcuno si sia rivolto ad amici nelle forze dell’ordine, in grado di fare qualche accertamento “privato”. Ma questo è un reato ed esattamente accesso abusivo a dati personali, sia per chi chiede le informazioni, sia per chi eventualmente le procura se non autorizzato», ricorda Marraffino.
Bilanciare i diritti, anche tra genitori e figli
Un altro caso eclatante e recente è quello di Elisabetta Gregoraci, che ha raccontato di aver spiato il cellulare dell’ex marito Flavio Briatore, accedendovi con la sua impronta mentre dormiva: «Anche questo è un esempio di accesso abusivo a sistema informatico. A volte accade anche ad alcuni genitori che controllano di notte il cellulare dei figli: anche la giurisprudenza in questo caso può essere più clemente in ragione di un dovere di controllo del minore, e molto dipende dalla sua età e dal contesto. Sarebbe sempre da evitare: meglio il dialogo, la fiducia e la responsabilizzazione dei figli nell’uso dei social», conclude Marraffino.