Lei era pressoché una sconosciuta, lui l’attore del momento. Il ragazzo con gli occhi azzurri, un po’ impacciato che aveva conquistato il cuore delle ragazze inglesi e non solo. Lei era Liz Hurley, lui Hugh Grant. L’11 maggio 1994 lei, allora sua fidanzata, lo accompagna alla premiere di Quattro matrimoni e un funerale, commedia romantica con protagonista Andie MacDowell. Elizabeth fatica a trovare un brand che la voglia vestire per l’occasione, finché in soccorso arriva Gianni Versace con quello che era (ancora) soltanto una abito nero. Allora, lo indossa lei il Safety-pin dress: in seta e lycra, dalla scollatura vertiginosa sul décolleté. Ma soprattutto con quel dettaglio che l’ha reso “That Dress”, quel vestito: i lembi di stoffa tenuti insieme da grandi spille da balia oro. Il resto è storia e ora il Safety-pin dress è stato venduto per 12,090 euro dalla casa d’asta Penelope’s Auction.
Il Safety-pin dress, quando un vestito ti cambia la vita
Liz Hurley è bellissima e il Safety-pin dress fa tutto il resto. Lo abbina con un bracciale e degli orecchini oro, collant velati e un paio di scarpe dal tacco vertiginoso con plateau. Il gioco è fatto ed è inutile dire che quella sera il buon Hugh Grant passò in secondo piano. Perché la protagonista fu Elizabeth, o meglio la creazione di Gianni Versace. Fino ad allora l’aveva indossata soltanto la top model Helena Christensen sulla passerella della sfilata Primavera/Estate 1994, ma si può dire che da quella serata “That Dress” abbia cambiato le sorti sia della casa di moda italiana, ancora non molto conosciuta in Inghilterra, sia della carriera di Hurley.

Ben presto diventò il volto di Estée Lauder, lanciò una linea di costumi e anche la sua carriera d’attrice spiccò il volo. Tanto quel vestito aveva contribuito a imprimerla nell’immaginario collettivo, sigillando un momento che rimane ancora oggi uno dei più alti della cultura pop degli anni Novanta. Perché tutti ci ricordiamo di questo vestito nero ispirato un po’ alla sottocultura punk, un po’ al sari indiano? Facile, il Safety-pin dress è stato un game changer: ha cambiato le regole della moda e del red carpet, inaugurando un nuovo modo femminile di calcarlo. “That Dress” ha stabilito il paradigma della donna sicura di sè, che non ha paura di mostrare la propria bellezza e sensualità. Infine, ha reso evidente il potere della moda. Perché il glamour, soprattutto quando infrange un po’ le regole, diventa storytelling.
Viralità ante litteram
E ora che il Safey-pin dress è stato venduto per 12,090 euro, in un tempo storico in cui le immagini diventano virali alla velocità della luce (la stessa con cui poi finiscono nel dimenticatoio) viene da chiedersi come sia stato possibile per questo vestito essere sulla bocca di tutti per così tanto tempo. Infatti, non bisogna dimenticare che sebbene a indossarlo nuovamente sia stata soltanto Lady Gaga nel 2012, quando è venuta a Milano in visita da Donatella Versace, di quella creazione sono state create numerose rivisitazioni. E la stessa Hurley ne ha indossata una nel 2019 sulle pagine di Harper’s Bazaar US. Indubbiamente, sono davvero pochi gli abiti ad alto tasso di iconicità, quelli che ci ricordiamo anche a distanza di decenni, anche se li abbiamo visti di straforo.
Forse ripenserai al Jungle Dress, l’abito verde con stampa tropicale, anche questo firmato Versace e indossato da Jennifer Lopez ai Grammy Award nel 2000. E poi tornato in passerella durante la Milano Fashion Week, a chiusura della sfilata P/E 2020. Oppure, all’elegantissimo abito in velluto e seta black and white, il vintage Valentino P/E ’92 con cui Julia Roberts ritirò l’Oscar per la sua interpretazione in Erin Brockovich – Forte come la verità nel 2001. O la nuvola di taffetà rosa firmata Ralph Lauren con cui Gwyneth Paltrow, attrice e icona della moda anni ’90, ritirò l’Oscar come Miglior Attrice per Shakespeare in Love, nel 1999.


Abiti bellissimi con un denominatore comune: appartengono all’ultimo decennio dello scorso millennio o all’inizio di quello corrente. Sono stati virali prima di Instagram e TikTok. E il dubbio sorge: viviamo davvero nell’epoca della viralità o la nostra memoria è sempre più a breve termine?