L'educazione per eliminare la violenza sulle donne

Come educare i bambini alla parità

Lo rivela una recente indagine: i giovanissimi hanno una labile percezione di cosa sia un abuso. Colpa degli stereotipi in cui crescono. Per sradicarli c’è un solo modo: educare i bambini alla parità, al rispetto, ai sentimenti

Cosa dice il report di Fondazione Libellula

«Se ogni figlio fosse visto come un individuo unico, provvisto di potenzialità proprie e al quale offrire il massimo per aiutarlo a svilupparsi nella sua direzione, la questione del sesso perderebbe automaticamente importanza». Scriveva così, esattamente 50 anni fa, Elena Gianini Belotti in Dalla parte delle bambine, pietra miliare della pedagogia contemporanea. Da allora la società ha avuto una radicale trasformazione, moltiplicando tanto le opportunità quanto le contraddizioni. Il nuovo report Teen Community di Fondazione Libellula, impegnata contro violenza e disparità di genere (fondazionelibellula.com), mostra come, tra stereotipi e labile percezione di che cosa è violenza, la strada da percorrere sia ancora molto, molto lunga. Il 48% degli intervistati fra i 15 e i 19 anni dichiara di aver subito contatti fisici indesiderati e il 48,5% di aver ricevuto messaggi offensivi in Rete; 4 su 10 sono convinti che controllare di nascosto il cellulare e i profili di qualcuno sia poco o per niente una forma di violenza e 8 su 10 hanno subito commenti espliciti e indesiderati sul proprio corpo.

Serve un cambiamento culturale

«I dati ci devono servire come campanello d’allarme» riflette Debora Moretti, presidente di Fondazione Libellula. «La violenza contro le donne – e le adolescenti di oggi sono le donne di domani – è un fenomeno sistemico. Non è un caso che solo il 22% dei ragazzi ci ha risposto che non è per niente d’accordo con la frase “se una ragazza dice no, in realtà vorrebbe dire di sì”. Non è un caso che, per una ragazzina che ha subito un abuso, l’aver bevuto sia un pretesto per dire che “se l’è andata a cercare”, mentre per il ragazzo che l’ha commesso essere ubriaco sia un’attenuante, perché “non era in sé”. Occorre mettere in atto subito un cambiamento culturale che decostruisca la violenza di genere».

La violenza sulle donne sembra non riguardare gli uomini

Sulla questione incide molto la normalizzazione della violenza, fisica e psicologica, che pervade la nostra società. Lasciamo parlare ancora i dati del report: solo il 33% dei maschi ritiene inaccettabile che un ragazzo diventi violento a causa di un tradimento e un misero 29% indica come inammissibile il controllo in una relazione. «I giovani si muovono ancora nell’eredità culturale trasmessa loro dagli adulti. Affinché ci sia un cambiamento, la sensibilizzazione e la responsabilizzazione devono essere collettive» aggiunge Flavia Brevi di Fondazione Libellula, che ha lavorato al report. «A febbraio abbiamo condotto uno studio su 2.000 uomini da cui è emerso che quasi 1 su 2 sia convinto che la violenza contro le donne non lo riguardi. Significa che ancora non riusciamo a comprendere il fenomeno in tutte le sue forme, non solo le più estreme, ma anche quelle più subdole: il commento sessista, la palpata».

Per educare inizia a dare l’esempio

Perciò è fondamentale partire da azioni quotidiane e da progettualità condivise. Un esempio? Fondazione Libellula consiglia di formare gruppi di ambassador tra gli studenti, sostenendo così un’educazione orizzontale – ovvero fra soggetti che si riconoscono simili – all’affettività, alla sessualità e all’equità di genere. «È sempre necessario iniziare dando l’esempio» sottolinea la psicologa e psicoterapeuta Maria Rita Parsi. «La scuola e la famiglia devono educare a un rapporto civile con il femminile, insegnando cosa siano il rispetto e il consenso. Gli adolescenti che passano dal virtuale, dove tutto è concesso, a situazioni reali dove viene reiterata la violenza sulle donne non maturano alcuna competenza riguardo ai sentimenti, alla sessualità. Su questo punto, come Paese, restiamo molto indietro: non dimentichiamo che nel 1981 esisteva ancora il delitto d’onore».

Promuovi la complessità

La strada principale diventa dunque, seguendo l’esempio di Elena Gianini Belotti, quella di liberare la mente dagli stereotipi. Anche inconsci, anche in buona fede. Come la consuetudine di vestire i bambini da superereoi o cowboy e le bambine da ballerine o principesse. È importante allontanarsi da questi cliché per promuovere una scelta libera, meno legata ai generi. Stando al contempo attenti a non scivolare nell’eccesso opposto. «Come nessuno deve imporre macchinine e bambole, così nessuno deve toglierle. Si tratta di invitare alla complessità, cercando di moltiplicare gli stimoli e le possibilità» sottolinea la sociologa Rossella Ghigi, docente all’Università di Bologna e autrice di Fare la differenza (Il Mulino).

Come educare i bambini alla parità

«Oggi più che mai è fondamentale guidare alla parità. Sono convinta che sia necessario farlo senza disuguaglianze, ma non senza differenze. Si può iniziare lavorando su se stessi e sul linguaggio e ricordando che non è importante solo cosa si dice ma anche come. L’italiano è una lingua sessuata: prevede, cioè, la possibilità di declinare al maschile o al femminile sostantivi, aggettivi, pronomi» dice Rossella Ghigi. La lingua è uno strumento di percezione e di classificazione della realtà, partecipa alla rappresentazione del mondo, perciò è utile per coltivare l’approccio alla differenza anche in termini educativi. Utilizzare termini al femminile quando si riferiscono a una donna, evitare il ricorso al maschile sovraesteso quando possibile sono dei primi, necessari passi.

Non proporre ricette ma ragionamenti

«Fondamentale è assecondare, e non negare, le oggettive peculiarità di genere» prosegue Rossella Ghigi. Può essere utile fare ai bambini delle proposte che partano dalle specifiche competenze, magari sfruttando la maggiore predisposizione al linguaggio per le femmine e la più spiccata capacità visuo-spaziale per i maschi, evidenziate dai recenti studi neuro-scientifici». È comunque bene ricordare due elementi. «Il primo è che nessuno è immune dagli stereotipi interiori che apprendiamo, nostro malgrado, fin da bambini e che spesso mettiamo in atto senza rendercene conto» conclude Ghigi. «Il secondo è che il cervello fino alla maggiore età è molto plastico. Anche se non si ottengono risposte immediate, magari il seme dell’uguaglianza fiorirà negli anni. Nel caso dei bambini. il cuore della questione diventa così la stimolazione. Non bisogna proporre ricette, ma ragionamenti». Per creare un cortocircuito con i vecchi modi di pensare, sostenendo l’inclusività e una mentalità più aperta. Accettando questa sfida cruciale – certamente «non lineare, ma ricca di opportunità» come già annunciava Elena Gianini Belotti – che è l’educazione al genere e all’affettività.

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