Il padre di Filippo Turetta: «Gli è saltato un embolo, forse voleva farle paura»

Perché i genitori di Filippo Turetta non sono ancora andati in carcere? Possibile che non avessero colto dei segnali nel figlio prima dell'assassinio? Le risposte delle criminologhe

Cresce la tensione nel carcere di Montorio, a Verona, dove Filippo Turetta è stato trasferito dopo l’arresto in Germania. Gli altri detenuti denunciano un trattamento di “favore” al 22enne reo confesso della morte di Giulia Cecchettin, per aver ricevuto libri, per esempio. Ciò che invece è mancata è stata la visita da parte dei genitori: in cella si sono recati solo gli avvocati Giovanni Caruso e la collega Monica Cornaviera. Perché i genitori non sono andati? A parlare, per ora, è solo il padre del giovane che in qualche modo ha respinto l’idea che il figlio sia un “mostro”.

Perché i genitori di Filippo Turetta non sono andati in carcere?

Spiega Paola Calvello Cornejo, psicologa clinica e criminologa: «Intanto ora i genitori di Filippo Turetta si trovano catapultati in un mondo del tutto nuovo e drammatico come quello carcerario, che irrompe in una quotidianità così differente da quella della loro vita fino a pochi giorni fa. Padre e madre adesso si trovano anche alle prese, di punto in bianco, con una terminologia come quella legale, che è altrettanto sconosciuta. Ma soprattutto, a livello emotivo, vivono una condizione molto forte: sono i genitori di una persona che ha commesso un reato così efferato, di un omicidio di cui si parla da giorni. Per questo potrebbero sentirsi pressati a dover scegliere una posizione, da che parte stare: se con il loro figlio o contro».

La scelta drammatica dei genitori: da che parte stare

«La realtà è che i genitori possono sentirsi chiamati a schierarsi. È un ragionamento normale in queste prime fasi. Chi è in questa posizione così difficile, è normale senta l’istinto di voler parlare col proprio figlio, che rimane tale, ma allo stesso tempo anche l’esigenza di prendere tempo, di rimandare la scelta prima di entrare in carcere. Sanno che anche questo loro gesto, inoltre, sarà osservato, analizzato dall’opinione pubblica e da chi segue il caso, che si chiederà se, andando a trovare il figlio in cella, vogliano scusarlo, capirlo o difenderlo. È una non scelta del tutto normale e fisiologica», spiega anche Calvello Cornejo. «Certo potrebbe anche incidere una valutazione degli avvocati: in carcere i colloqui sono registrati e forse la strategia difensiva ha ritenuto che fosse troppo presto o rischioso un colloquio adesso», aggiunge Paolo Bergonzoni, giornalista esperta di criminologia e sociologia.

Per il padre di Filippo Turetta gli è “partito l’embolo”

Intanto nei giorni scorsi a parlare era stato proprio il padre di Filippo, Nicola Turetta. In una intervista a Chi l’ha visto? l’uomo ha detto del figlio: «Non è uno che uccide a mano armata, gli è saltato l’embolo». «Io ho pensato che volesse sequestrarla, rapirla per non darle la soddisfazione di laurearsi e dopo lasciarla – ha proseguito – Purtroppo le cose sono peggiorate, forse voleva farle paura poi la cosa è precipitata». «Ci sono degli aspetti di questa tragedia che vanno visti in una chiave un po’ diversa, cioè non è uno che ha ucciso a mano armata, non so. So che Giulia andava fuori con lui tranquillamente, fino a quel sabato so che non le ha toccato neanche un capello. Quindi lei era tranquilla quando usciva, lei non aveva questi timori», ha aggiunto.

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Perché i genitori non si accorgono dei segnali

Tra gli interrogativi che rimangono c’è la domanda su come le famiglie non si siano accorte della gravità della situazione. «Ci sono due aspetti da considerare: da un lato si tende istintivamente a non accettare la situazione. I genitori, a maggior ragione, faticano anche perché significa in qualche modo mettersi in discussione loro stessi. D’altro canto è anche difficile cogliere effettivamente i campanelli d’allarme, soprattutto se si tratta di figli maschi. Questi, culturalmente, faticano a comunicare ciò che stanno vivendo, sia con gli amici, sia soprattutto con la famiglia: ciò che a volte emerge è solo la punta dell’iceberg», spiega Calvello Cornejo.

I segnali da non sottovalutare

«È un problema culturale. Quando si parla di patriarcato non ci si deve limitare a pensare a gesti eclatanti: spesso sono sufficienti gesti che appaiono normali, dei quali non ci accorgiamo neppure, oppure espressioni come “le donne non si toccano neppure con un fiore”: possono sembrare parole innocue, ma nascondono una certa visione del mondo e atteggiamenti molto radicati nella nostra cultura, specie italiana – spiega la criminologa – Alcuni comportamenti sentinella, quindi, sono evidenti solo all’interno della relazione: solo chi li vive se ne rende conto, per cui spesso i familiari non ne sono consapevoli, come sembrerebbe anche nel caso di Turetta: non pare avesse parlato con amici e familiari della difficoltà che stava vivendo nella sua relazione».

Perché le donne non chiedono aiuto

«Ma lo stesso vale in qualche modo anche per la Cecchettin, che pure aveva inviato i messaggi audio alle amiche. Probabilmente non era chiaro neppure a lei quanto quelle parole fossero pericolose», prosegue l’esperta, secondo cui anche le donne faticano a chiedere aiuto: «Capita che abbiano paura a chiamare un numero utile come il 1522: ne hanno un’idea catastrofica, temono che sia un’azione sproporzionata». «Noi donne a volte abbiamo ancora la sindrome della crocerossina, di cui parlava già Robin Norwood nel suo libro di molti anni fa Donne che amano troppo. Ma l’idea di “salvare” l’uomo è fallimentare, ricordiamocelo», spiega Bergonzoni.

Quando le relazioni sono possessive e ossessive

«A volte capita anche ai genitori di non accorgersi di alcuni segnali. In altri casi, pur cogliendo qualcosa, si tende a sottovalutare la situazione, a difendere i figli, anche perché non siamo tutti esperti. Si finisce così con l’essere possibilisti e forse un po’ indulgenti, ma le conseguenze possono essere anche gravi», sottolinea Bergonzoni, che aggiunge: «Credo che in generale manchi la cultura e la conoscenza del disagio psichico e psicologico». Ma è possibile che si arrivi a gesti estremi senza aver mai manifestato alcun disturbo?». Spiega Enrico Zanalda, Presidente della Società di Psichiatria Forense: «Spesso alcuni disturbi vengono nascosti o sottovalutati oltre che dal/la paziente, anche dalla famiglia e dall’ambiente sociale e noi specialisti riusciamo a intercettare gli esordi psicotici solo alcuni anni dopo l’inizio della sintomatologia. Questo ritardo non giova alla prognosi»,

Dal raptus all’incapacità di intendere e volere

La difesa ora potrebbe chiedere l’infermità mentale per Filippo Turetta. «È comunque difficile che si arrivi a ipotizzare una incapacità di intendere e volere senza che ci siano dei sintomi precedenti che possano far pensare a un disturbo di natura psichica: per essere tale deve impattare su tutte le aree della vita, dalla scuola al lavoro alla socialità, e non sembra il caso di Turetta. Per lui sembrerebbe si possa parlare soprattutto di relazione possessiva e ossessiva con la Cecchettin», spiega la criminologa.

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Conoscere i protocolli di aiuto

Resta, intanto, l’importanza della prevenzione per intercettare possibili casi a rischio e possibilmente limitare episodi analoghi: «Sarebbe fondamentale comunicare come funzionano i protocolli. Non è detto che chiamando il 1522 ci sia subito un intervento drammatico e comunque ogni passaggio è condiviso e non obbligato. Esistono anche strumenti che permettono passaggi intermedi come il protocollo Zeus – spiega Calvello Cornejo – È promosso dal Centro italiano per la Promozione della Mediazione, in collaborazione con le Questure. Chiunque (anche un vicino di casa) può segnalare violenze o abusi domestici e al soggetto in questione arriva una sorta di cartellino giallo di ammonimento che lo obbliga a seguire un corso, gratuito, per il recupero e l’eliminazione dei comportamenti violenti».

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