Violenza sulle donne donna balla con abito rosso

Primo: denunciare. E poi?

I femminicidi non diminuiscono. Anche se le leggi ci sono. Quindi cosa serve davvero contro la violenza sulle donne per salvarle e, dopo, per aiutarle a ricostruirsi una vita?

Violenza sulle donne: a che punto siamo?

Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Istituita nel 1999 dalle Nazioni Unite, ricorda l’assassinio delle tre sorelle Mirabal, attiviste politiche ammazzate nel 1960 nella Repubblica Dominicana per aver combattuto per la libertà del loro Paese. Sono passati più di 60 anni, ma non sembra essere cambiato molto. E lo testimoniano i numeri dei femminicidi, che restano sempre quelli nonostante le leggi e le nostre battaglie. Per fare chiarezza, abbiamo chiesto agli esperti a che punto siamo, quali passi avanti abbiamo fatto e che cosa invece ancora manca.

Quanti sono i femminicidi?

Mentre scriviamo questo articolo non sono ancora stati pubblicati gli ultimi dati Istat. Gli unici numeri ufficiali che possiamo quindi consultare sono quelli del Ministero dell’Interno: dicono che relativamente al periodo 1 gennaio – 19 novembre 2023 sono stati registrati 105 omicidi con vittime donne, di cui 82 uccise in ambito familiare-affettivo; di queste, 53 hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex partner. Perché è importante guardare i numeri? Lo spiega bene Donata Columbro, giornalista ed esperta di dati, che parteciperà a una delle Chiacchierate Femministe organizzate da WeWorld, il 30 novembre a Milano (info su weworld.it).

Perché è importante contare le donne vittime di violenza

«Contare vuol dire capire, nominare, rendere individuabile un fenomeno che, nel caso della violenza contro le donne, è diventato sistemico. Significa anche rendere visibile chi la subisce. Per questo, oltre al ruolo autore-vittima, bisognerebbe guardare la violenza inflitta, le forme di oppressione subite in precedenza e molto altro. Per rendere confrontabile il modo di contare i femminicidi nel mondo, nel 2022 l’Onu ha creato un framework statistico con più di 50 indicatori da prendere in considerazione» dice Donata Columbro. Fondamentali, dal momento che persino i Paesi dell’Unione Europea seguono categorie e definizioni differenti.

Dove monitorare la violenza sulle donne

Osservare i numeri, quindi, è essenziale, peccato che siano disomogenei e di difficile accesso. «Il database dell’Osservatorio di Non una di meno (Nudm, nonunadimeno.wordpress.com) è attualmente la miglior modalità di monitorare la situazione italiana sul fenomeno: a oggi si contano 104 vittime e soprattutto si possono leggere le loro storie. Se le vittime di violenza maschile sono marginalizzate, “invisibilizzate” e discriminate, allora contare, archiviare, registrare è l’unico modo di ottenere giustizia. È quello che prova a fare la giornalista María Salguero in Messico, dove dal 2016 annota su una mappa tutti i femminicidi che non vengono riportati nelle statistiche istituzionali. Contare per costruire una narrazione diversa della violenza di genere, più trasparente ed efficace, è un’azione potente».

Perché le donne non denunciano?

In attesa dei numeri aggiornati, a lanciarne uno che fa esplodere come una bomba un tema delicatissimo, è Alessandra Kustermann, ginecologa e presidente di SVS Donna Aiuta Donna Onlus, uno dei centri antiviolenza della Lombardia (svsdad.it). «Il dato peggiore riguarda il sommerso, che arriva al 90%. Su 10 donne che accedono ai nostri centri una sola denuncia». Come mai? «Nonostante le donne oggi abbiano una maggiore percezione che la violenza fisica e psicologica sia un reato, quando c’è da denunciare si tirano indietro, perché spesso i tempi del percorso giudiziario e quelli del trauma psicologico non combaciano». In che senso? «A volte il processo in primo grado dura un anno e mezzo, ma poi c’è il secondo grado e poi la Cassazione. Sono anni e anni  in cui non si riesce a uscire fino in fondo dal trauma della violenza. E ogni processo è un rivivere l’accaduto» dice Kustermann.

Denunciare non è sufficiente

Il mantra “denuncia, denuncia, denuncia” quindi non è più sufficiente. «Il punto non è tanto dare alle donne l’input a denunciare, dobbiamo concentrarci sul contesto: se è accogliente, rispettoso, non vittimizzante, è più facile farlo». Cosa che sarebbe ulteriormente facilitata se anche i magistrati e i giudici, oltre che le forze dell’ordine, come già è previsto dal Codice Rosso del 2019, avessero una formazione adeguata sul tema.

Il Codice Rosso basta?

Sul tema della ritrosia a denunciare e delle lungaggini della giustizia è dello stesso parere Valerio de Gioia, Consigliere della Corte di Appello di Roma e autore del libro Il Codice Rosso (La Tribuna): «Oggi possono passare anche 3-4 anni prima che le vittime si siedano davanti a me». Non basta quindi imporre al pubblico ministero l’obbligo di sentire la donna entro 3 giorni, come è scritto nel Codice Rosso, se non si interviene sulla disciplina delle misure cautelari e di prevenzione da adottare nell’immediatezza dei reati denunciati.

Cos’è la vittimizzazione secondaria

«Il fatto che la persona abusata debba presentarsi più volte in udienza fa scattare spesso un fenomeno che si chiama “vittimizzazione secondaria”» spiega il giudice. «Significa trattare la vittima come fosse partecipe dei reati subiti. Cerco di spiegarmi meglio: un conto è denunciare il furto di una macchina e tirare avanti un procedimento per 3 anni in cui devo ripetere cosa è successo. Un altro è raccontare più volte le violenze subite, rispondendo a una lunga serie di domande che possono riportare a galla tutto. E avere anche una conseguenza più grave: siccome non si può pretendere che il racconto sia identico parola per parola, può succedere che la vittima ritratti perché non vuole rivivere il ricordo oppure che sia messo agli atti che non ha voluto ripetere quanto denunciato in precedenza, con tutte le conseguenze del caso».

Anche l’aumento delle pene non basta a far denunciare le donne

E succede più spesso di quanto si possa pensare. «Se io vado dal medico e non gli racconto tutti i sintomi, lui non può diagnosticare la gravità della mia malattia». Ovvero, quanto è a rischio la mia sicurezza, la mia vita. «Che neanche l’aumento delle pene previsto dal Codice Rosso (per esempio, per il reato di atti persecutori la pena è stata inasprita da 1 anno a 6 anni e 6 mesi di reclusione, anziché da 6 mesi a 5 anni, ndr) serve a tutelare. Chi vuole ammazzare la moglie o la ex, non si ferma certo pensando al carcere. Neanche se venisse introdotta la pena di morte, i numeri diminuirebbero. Le vedo, a processo, le facce di questi uomini: sono volti di sfida» conclude de Gioia.

Di cosa c’è bisogno?

A questa domanda, Alessandra Kustermann risponde senza pensarci un attimo: prevenzione. Che per lei si traduce nell’educazione. «Chiamiamola sentimentale, affettiva, perché il termine sessuale crea ancora ansia. Ma, per indurre un reale cambiamento, bisognerebbe incominciare a insegnare la cultura della gentilezza e del rispetto fin dall’asilo nido!». Solo così si può pensare di cambiare la cultura degli uomini. Ci riferiamo alla possessività di certi compagni, ai maltrattamenti psicologici, fisici ed economici che ancora alcune di noi subiscono, alle donne che vengono insultate e svalutate. Avete presente C’è ancora domani, il film di Paola Cortellesi? Ecco, quella cosa lì. Ok quindi prevenire (forse un giorno ce la faremo), ok denunciare, ma dopo di cosa c’è bisogno?

Come andrebbero aggiornate le leggi sulla violenza contro le donne

E qui interviene Valerio de Gioia: «Il Codice Rosso è uno strumento valido ma si concentra sulla fase iniziale: se non spingiamo su maggiori tutele per la donna nella fase successiva, sullo snellimento e il potenziamento dell’iter processuale, troveremo sempre più spesso vittime che non denunciano».

La riforma Roccella

Per fortuna, però, sembra esserci una buona notizia. «La riforma Roccella, che è di prossima approvazione al Senato, dovrebbe colmare alcune lacune. Innanzitutto, con il rafforzamento dell’ammonimento del questore, una misura di prevenzione oggi prevista per tutelare le vittime di violenza domestica, cyberbullismo o stalking che si attiva quando le forze di polizia ricevono una segnalazione dalla donna. A quel punto la persona “ammonita” deve astenersi dal commettere ulteriori atti di molestia. In caso contrario, la procedibilità per i reati previsti non è più a querela di parte ma d’ufficio» spiega il magistrato.

Cosa cambia

Con la nuova riforma si ampliano i casi in cui si potrà applicare questa misura, includendo anche i cosiddetti “reati-spia”: le percosse, le lesioni personali, la violenza sessuale, la violazione di domicilio. «Verranno poi estese ai casi di violenza sulle donne le misure di prevenzione personale già previste dal Codice antimafia. La polizia, sulla base degli indizi, potrà quindi far scattare la sorveglianza speciale per i maltrattanti, come per esempio l’uso del braccialetto elettronico».

L’importanza dell’arresto in flagranza differita

E infine c’è l’arresto in flagranza differita. Di cosa si tratta? «Di solito una persona viene arrestata se colta mentre commette il reato, come per esempio rubare un auto. Per le violenze domestiche è impossibile: con la riforma Roccella la polizia avrà 48 ore per arrestare il maltrattante anche se non lo ha colto durante il fatto. Basteranno la documentazione video-fotografica o informatico-telematica, come le chat» spiega il giudice. E per ovviare al problema della vittimizzazione secondaria? Bisognerebbe rendere obbligatorio l’incidente probatorio (al momento è facoltativo, ndr), ovvero la possibilità di anticipare l’acquisizione e la formazione di una prova già durante le indagini preliminari, fin dalla fase della denuncia o al più tardi entro un mese, in modo che la vittima racconti una volta sola la violenza subita e quindi sia invogliata a denunciare.

E dopo, come ricominciare?

Ma le cose da fare non sono finite. «A chi denuncia lo Stato dovrebbe garantire l’accesso a un fondo di garanzia come quello varato per l’usura. A oggi, in realtà esiste un “reddito di libertà” che però è limitato, assomiglia più a una paghetta che a un vero e proprio aiuto» conclude Valerio de Gioia. «Quello che ci vorrebbe è l’inserimento o il reinserimento nel mondo del lavoro, che restituisce dignità e libertà alla donna» sottolinea Martina Semenzato, presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sui femminicidi.

L’importanza del lavoro per le donne che subiscono violenza

«Chiediamoci: “Perché le donne, alla fine, tornano con il partner che le maltratta?”. E smettiamo di risponderci che è perché lo amano. Sì, magari sì, alcune, poche. Ma le altre non hanno alternative. Come fanno a scappare da un uomo violento se non hanno una casa loro dove andare e un lavoro per mantenersi, se hanno i bambini piccoli?» aggiunge Alessandra Kustermann. E a confermarlo sono i numeri, proprio quelli da cui siamo partiti: il 64% delle donne che intraprende un percorso di uscita dalla violenza è disoccupata o ha un lavoro precario. Ed è per questo che la “paghetta” non basta: servono colloqui orientativi, corsi di formazione qualificanti, tirocini professionalizzanti ben pagati. Un sogno? Forse. Noi speriamo un diritto che presto abiteremo.

Un luogo speciale

I lavori stanno per partire e Cascina Ri-nascita – il progetto che vede in prima linea SVS Donna Aiuta Donna Onlus e il Cadmi, Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano – sarà pronta a fine 2024. Nella sua sede, a Cascina Carpana, a sud di Milano, verranno ospitate le donne che hanno subito abusi, e i loro figli, per aiutarle a recuperare autostima e autonomia. Qui potranno prendere confidenza con la vita, formarsi grazie ai laboratori di sartoria, alta moda e restauro e ai corsi di informatica e lavorare nel ristorante e nel bar. Per contribuire a questo importante progetto, puoi fare una donazione sul sito www.svsdad.it/cascina-ri-nascita.

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