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Il bonus per chi assume una vittima di violenza

Per spronare le aziende ad assumere le donne vittime di violenza, è previsto un bonus sotto forma di sgravi fiscali. Occorrono requisiti specifici, che in parte rappresentano un limite di questa misura: ecco come funziona

Senza un lavoro e l’autonomia finanziaria non c’è libertà. Nel 2022 (dati Istat) circa il 60 per cento delle donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza denunciavano una sofferenza economica: erano disoccupate, casalinghe o lavoravano in nero.

Un bonus per spronare le aziende

Per spronare le aziende ad assumerle, nell’ultima Legge di bilancio è stasto previsto un bonus, speciali esoneri contributivi, molto attraenti soprattutto per le piccole aziende o le cooperative, sempre alla ricerca di forme di risparmio: «Una sorta di bonus che, purtroppo, non è strutturale, ma vale nel triennio 2024-2026» spiega Mariangela Zanni, consigliera nazionale della rete Di.Re. Che ci aiuta a capire meglio questo strumento, con i suoi pro e i suoi contro.

A chi spetta il bonus che prevede sgravi fiscali

Possono chiedere l’esenzione dal versamento dei contributi i datori di lavoro privati. «Si intendono gli imprenditori ma anche gli studi professionali, associazioni e fondazioni» precisa l’esperta.

In cosa consiste

Chi assume una donna vittima di violenza può beneficiare di uno sgravio totale dai contributi previdenziali (esclusi i premi Inail) fino a 8mila euro all’anno. E la pensione? «La pensione non viene intaccata: lo sgravio contributivo è coperto dalla finanza pubblica» precisa Zanni.

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A quali contratti si applica il bonus

«In caso di contratti di lavoro a tempo indeterminato, l’incentivo dura per un massimo di 24 mesi, mentre per i rapporti a tempo determinato l’agevolazione è riconosciuta per 12 mesi (anche in caso di proroga). Che diventano 18 se il contratto è trasformato a tempo indeterminato» spiega l’esperta. Che però segnala alcuni limiti di questa misura.

Quali donne possono essere assunte 

La platea delle beneficiarie non è così ampia. «Possono essere assunte le donne seguite da un centro antiviolenza e che percepiscano il Reddito di libertà (400 euro al mese), misura introdotta nel 2020 con la pandemia e rifinanziata ogni anno». I conti però non tornano: nel 2022 le donne che hanno chiesto aiuto ai centri sono state circa 50mila, quelle che hanno potuto godere del Reddito di libertà circa 6mila. Troppo poche. 

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Il limite della privacy

Tutto ciò significa che il datore di lavoro è a conoscenza della propria condizione: un limite, quello della privacy, che riguarda l’accesso a tutti i dispositivi messi in campo dallo Stato, come il congedo retribuito, per esempio». Non è scontato, insomma, che la donna sia d’accordo a condividere la propria storia. «Pensiamo per esempio a una piccola azienda, dove alla fine tutti sanno tutto di tutti, ma anche a una multinazionale: che tutela si offre alla circolazione delle informazioni più riservate?» Chiede la consigliera. Che lancia una proposta: «Sarebbe auspicabile un accordo tra il centro antiviolenza che ha aiutato la donna e la direzione del personale, in modo da garantire standard definiti di sicurezza. Per esempio, la donna che non è più in una casa rifugio, deve poter essere certa che il luogo di lavoro resti riservato. Chi ne risponde?».

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Quando sarà la società tutta a conciliare?

Il 60 per cento delle donne vittime di violenza ha figli piccoli e, dopo aver lasciato il maltrattante, non riesce a lavorare perché non ha aiuti nella gestione dei bambini. «Invece che introdurre incentivi» conclude Mariangela Zanni «perché non si obbligano le aziende ad avere orari compatibili con le famiglie?». La conciliazione vita-lavoro non è un’esigenza delle donne, ma un dovere delle società più civili.

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