La lotta alla disparità di genere passa anche – soprattutto? – dal sostegno alle madri lavoratrici.
Peccato che resti ancora insufficiente in (quasi) tutto il mondo. Certo, ci sono esempi virtuosi come la Finlandia che ha esteso il congedo di paternità a 6 mesi per ciascun genitore, ma anche Paesi come gli Usa che a livello federale non garantiscono nemmeno il congedo di maternità retribuito. Un’equa distribuzione del carico di cura dei figli è però essenziale per aumentare l’occupazione femminile, contrastare la natalità, spingere l’economia. E anche permettere agli uomini di esercitare il loro diritto di essere padri. «I congedi parentali sono strategici per il futuro di un Paese, da un punto di vista sia culturale sia economico» sottolinea Barbara Falcomer, direttrice generale di Valore D, associazione no profit di imprese nata nel 2009 con l’obiettivo di promuovere l’equilibrio di genere e l’inclusione in aziende e società.

Ma in Italia, «nonostante abbiamo l’indice di vecchiaia più alto dopo il Giappone, il supporto alle famiglie è minimo, mentre sarebbe fondamentale» anche per aumentare la natalità. Da noi il congedo di maternità è obbligatorio per 5 mesi e retribuito all’80%, quello di paternità è passato da 7 giorni nel 2020 a 10 nel 2022, comunque pochissimi. Esiste poi il congedo parentale facoltativo: 10 mesi totali entro i primi 12 anni del bambino, retribuiti solo al 30% dal terzo mese in poi. Al fine di contrastare il calo delle nascite, invece, la Francia, che nella classifica dei Paesi con il più alto tasso di vecchiaia figura ottava, ha annunciato entro fine anno l’introduzione di un “congedo di nascita” di 6 mesi per entrambi i genitori, da affiancare a maternità (16 settimane) e paternità (28 giorni), con una retribuzione fino al 50% dello stipendio.

Congedi di paternità, risicati e poco utilizzati

Oltre a essere risicati, i congedi di paternità sono anche poco utilizzati. In Italia, del resto, solo nel 33% delle coppie con figli entrambi i genitori lavorano, contro il 54% in Francia e il 49% in Spagna, due Paesi numericamente e culturalmente simili al nostro. Il modello prevalente è quello del papà che lavora, mentre la mamma sta a casa. «Una causa è il gender pay gap, ossia il fatto che generalmente le donne guadagnano meno» osserva Falcomer. «Ma c’è anche una ragione sociale: la cultura della paternità da noi è ancora troppo debole, legata a stereotipi di genere: gli uomini spesso abdicano alla cura dei figli per timore dei pregiudizi legati al “fare il mammo”.

Lo dimostra il fatto che solo il 64% si avvale del congedo di paternità: meglio del 19% del 2013, certo, ma in Svezia si sfiora il 90% perché sussistono meno bias». E anche il congedo parentale viene richiesto dalle madri nel 73% dei casi, rileva l’Inps. Associazioni come Superpapà lavorano sulla volontà degli italiani di diventare sempre più parte integrante e attiva nell’educazione dei figli. «Anche noi di Valore D supportiamo proposte di legge che mirano a incrementare i tempi del congedo di paternità in Italia, introducendo anche congedi paritari non scambiabili, da prendere alternandosi.

Sono strumenti che servono anche a cambiare mentalità: rendere obbligatorio che i padri si occupino dei figli combatte gli stereotipi e ha una correlazione molto forte con la competitività di un Paese».

Congedo di paternità e mancanza di infrastrutture

La spesa pubblica per le famiglie evidenzia ulteriormente il divario tra l’Italia e gli altri Paesi europei: noi investiamo solo l’1,2% del Pil nel sostegno alle famiglie, contro il 3,5% della Germania e il 2,2% della Francia. Inoltre, più dell’80% della spesa italiana è destinata ad assegni e incentivi e solo una piccola quota è rivolta ai servizi come asili nido e assistenza agli anziani. Questa mancanza di infrastrutture e politiche disincentiva la partecipazione al mercato del lavoro delle donne, già storicamente relegate alla cura della casa.

«Ma le aziende dimostrano di avere bisogno del talento femminile e anche di forza lavoro, dal momento che siamo un Paese con sempre meno giovani e più anziani» osserva Falcomer. «Permettere alle donne di lavorare è una leva economica da non sottovalutare». Eppure, come emerge dall’indagine di Valore D Rimuovere le barriere alla maternità, essere madre o affermare di volerlo diventare riduce le possibilità di avanzamento e le opportunità professionali al rientro dal congedo di maternità.

Congedi di paternità e asili nido, tasto dolente

Gli asili nido sono un altro tasto dolente. In Italia solo il 30% dei bambini vi accede (contro una media europea del 38%) e il loro costo incide fortemente sul reddito familiare. Sebbene ci siano stati progressi (nel 2019 la copertura era al 28%), persistono notevoli differenze regionali, con la Valle d’Aosta al 48,3% e la Calabria al 17,8%. In Europa i più virtuosi sono i Paesi Bassi (74,2%), ma anche la Spagna supera il 50%. Nel 2023 da noi è stato introdotto un bonus di 800 euro per le madri lavoratrici con figli sotto i 6 anni, ma la riprogrammazione del Pnrr ha ridotto l’investimento sugli asili nido, passando da 246.000 nuovi posti a 150.000 e allontanandoci (quasi) definitivamente dall’obiettivo del 45% previsto dall’Agenda Onu 2030.

Congedo di paternità: l’importanza delle aziende

Le aziende si dimostrano essenziali nel promuovere il cambiamento, anche per attrarre i giovani, i quali, rispetto ai loro padri, mostrano un forte desiderio di essere genitori attivi e presenti: oltre a offrire flessibilità organizzativa e nidi aziendali, «molte investono in percorsi formativi per neogenitori che valorizzano competenze trasversali come gestione del tempo, ascolto e intelligenza emotiva, che migliorano anche la performance lavorativa» spiega Barbara Falcomer.

Alcuni grandi gruppi danno poi fino a 5 mesi di congedo retribuito al 100% anche a papà e coppie omogenitoriali, rispetto alle quali l’Italia è pure in ritardo sul fronte normativo. A fare maggior fatica sono le piccole e medie imprese, «che hanno più problemi ad accettare l’assenza delle donne per 5-6 mesi. Ecco perché senza interventi culturali e normativi strutturali, il sistema rischia di frenare l’occupazione femminile, aumentare le disuguaglianze e compromettere la sostenibilità sociale ed economica dell’Italia».