La prima cosa che mi colpisce è il silenzio del mio digital detox retreat. La pace che pervade ogni cosa. Le pietre bianche di questo convento in cima al Monteluco, 7 chilometri sopra Spoleto, che riflettono il sole sulla natura intorno. Alle 18 spegnerò il cellulare, ma prima voglio rispondere a un paio di mail, chiamare i miei cari per l’ultimo saluto, come se poi finisse il mondo. E un po’ ci spero. Parlo del mondo parallelo in cui vivo abitualmente, la bolla virtuale nella quale galleggio dalla mattina alla sera, mentre la vita intanto passa senza che io me ne accorga, spegnendo voci e colori. Le brevi challenge ricevute via mail per prepararmi all’incontro mi hanno spiegato che il bagaglio deve essere leggero: solo me stessa e il desiderio di provare.
Che cosa spinge una persona a iscriversi a un digital detox retreat?
Provare cosa? Mi rendo conto solo sul treno che mi ha portato fin qui che non mi sono mai chiesta perché sono venuta. Che cosa spinge una persona a iscriversi a un retreat di digital detox? Cosa si aspetta? Disintossicarsi dall’uso compulsivo del cellulare e degli altri device che ci intasano la vita, certo. Ma addirittura prendersi tre giorni, quasi quattro, per staccarsi da tutto – chiedendo ferie, permessi, nullaosta familiari – chi lo fa? E io, perché lo faccio? Scollegarsi dal mondo nei tempi dell’iperconnessione e della reperibilità H24 ha il sapore dell’impresa impossibile. E tutti a casa mi hanno detto che non ce la farò. Troppo frenetica, iperattiva, stakanovista, per resistere a lungo in modalità “off”.
Sono perennemente accesa. Come il mio telefonino, dal quale, lo ammetto, non mi separo mai. L’unica cosa che non riesco a perdere.
Disconnettersi per salvare la propria vita
Eppure, ci credo. Lo voglio fare. Qualcosa dentro mi dice che è urgente e necessario. Le prime persone che incontro, appena sistemata la valigia, sono Marta e Letizia. Parlano la mia lingua, non solo nella cadenza chiaramente umbra, anche nei modi, cordiali e spicci. Mi sento a casa. La più introspettiva delle mie experience inizia con una birretta al chiosco sotto l’eremo. Mi sembra di buon auspicio. Partenza morbida. Se non mi distraggo, ce la posso fare.
Il posto aiuta. Alle mie spalle, scoprirò a breve, si estende il Bosco Sacro, un luogo intriso di spiritualità che è stato al centro di una fiorente comunità monastica fin dall’epoca romana, e dove è sorto nel XIII secolo un Convento francescano per volontà dello stesso Santo d’Assisi. Il corpus primitivo, fatto di celle minuscole e spartane, è ancora visitabile. Oggi è abitato da sei frati minori. Matteo, ex ingegnere dalle spalle larghe e dal sorriso aperto, l’ho appena conosciuto. Ci ha accolto all’arrivo con una felpa e un paio di Birkenstock. Sembrava il figlio gentile di un’amica più che un padre guardiano.
È qui, in questa collina di lecci secolari, che Alessio Carciofi, coach e ideatore del nostro ritiro, ha messo a fuoco la sua missione. Salvarsi dal burnout in cui era cascato, e, se possibile, salvare gli altri. Così è diventato il primo esperto di digital detox in Italia. Quando è arrivato qui, con uno scarto della volontà che lo ha portato a girare verso il Santuario invece che proseguire verso casa, aveva tutti i sintomi della dipendenza – ansia, insonnia, depressione, tratti anaffettivi – ma non se ne accorgeva. È sempre così, mi dice, gli altri lo vedono che non stai bene, tu lo neghi. Però sentiva che si doveva fermare. Sospendere la vita, per riprenderla in mano. Un viaggio dentro se stesso dall’esito trasformativo.
Iniziare un digital detox retreat
Adesso tocca a noi. In tutto siamo 17. Diversi per età, provenienza, storie. Ma qui, solo persone. Nessuno sa dell’altro la vita e il lavoro. Non siamo il nostro ruolo, siamo noi. Nudi e crudi. Un po’ diffidenti, ma pronti a metterci in gioco durante questo digital detox retreat. Che la sfida cominci.
Giorno 1, il silenzio
Cenare senza parlare. È la prima challenge che precede il retreat. Siamo arrivati in ordine sparso, dal Nord al Sud d’Italia. Chi in macchina, chi in treno. Siamo stanchi, siamo curiosi. Abbiamo ancora i cellulari accesi. Pensavo li “sequestrassero” al nostro arrivo. Invece no, sta a noi gestirli, non siamo una classe di ragazzini in punizione. Alle otto in punto ci si vede in refettorio. La prima prova per me è la disciplina. Arrivo puntuale. Mi faccio l’applauso.
E poi è solo profumo di minestra e tintinnare di posate. Il raschio del cucchiaio che scava nel piatto per prendere l’ultimo boccone. La musica classica che fluttua tra i muri. Gli sguardi timidi e i sorrisi. Mi ero scordata il sapore della frutta. La faccio a spicchi, la sbuccio, la mastico. Non ero più abituata alla lentezza. Sono l’ultima. Mi agito. Tranquilla. Si chiude la serata con grappa e nocino, nella saletta della biblioteca, dove ci raggiunge Padre Paolo, cordiale e spiritoso, romanissimo. Se pensi a un amico, lo vorresti così.
Giorno 2, i bisogni
La vita del convento è scandita da orari. Le lodi e la messa dalle 7.30 alle 8. La colazione dalle 7 alle 9. Alle 13 il pranzo. Poi i vespri e un’altra messa, tra le 18 e le 19. Infine, la cena. A parte i pasti, ci comunica Alessio, ognuno è libero di fare ciò che vuole. Però alla fine ci troviamo quasi tutti a sgranare le ore come i frati, tra un’attività e l’altra. A me, personalmente, dà un senso di ordine e regolarità. Mi riconcilia con un andamento più sano e umano della giornata, che ormai nel mio tran tran è diventata un continuum senza pause né riposo.
Mi alzo alle 7 e prima delle 8 sono già a lavorare. È il momento in cui rendo meglio. Sono vigile, concentrata, produttiva. Dalle 9 iniziano le prime notifiche. Dopo i messaggi, arrivano le chiamate, le mail, le call su Zoom o Google Meet. E inizia la lotta per mantenere salda l’attenzione, riprendere le cose iniziate, tentare di concluderle. Per non perdere tempo mangio davanti al computer. All’ora di cena, sono ancora lì. Lo smart working ci ha reso più flessibili, ma in cambio ci ha chiesto di essere sempre “on”.
Non riesco più a distinguere il tempo del dovere e il tempo per me. Il primo si è mangiato tutto.
La distrazione fa male, non solo a te
L’appuntamento dopo colazione è in un’ampia sala con un tavolino pieno di generi di conforto, un bollitore per le tisane e una macchinetta per il caffè. Ci mettiamo in cerchio, ci passiamo il Workbook, che ci accompagnerà nel corso del nostro Reset Retreat. Nella prima pagina ci sono alcuni dati. Ciascuno di noi riceve quotidianamente una media di 200 notifiche. Veniamo interrotti dai device circa 31,6 volte al giorno. E ogni volta impieghiamo almeno 20 minuti per recuperare l’attenzione. Il risultato è che perdiamo circa il 20% delle capacità cognitive, con conseguenze sulla produttività nel 45% dei casi. In pratica, la nostra distrazione fa male non solo a noi, costretti a svolgere contemporaneamente più attività per star dietro a tutto, ma anche alle aziende per cui lavoriamo. Chi ci guadagna? Boh.
Adesso, penso, ci verrà detto come difenderci da questo bombardamento continuo e devastante. Invece no. Pagina 2: archeologia interiore. Ci viene chiesto di ripescare dentro di noi tracce e relitti di bisogni inascoltati. Necessità che abbiamo seppellito. In un cerchio vuoto dobbiamo scrivere cose, persone, situazioni che ci fanno stare bene. Fuori dal cerchio quelle che drenano le nostre energie. La mia circonferenza è piena di libri, viaggi, abbracci, relazioni. Ma vince il fuori, un’accozzaglia di corse e di doveri.
Com’è possibile che dedico solo l’1% alle cose che mi piacciono? Questa è la prima di una serie di domande che iniziano a far suonare il mio diapason interiore.
I bisogni ci muovono, i valori ci guidano, scopro. I miei quali sono? Lealtà, impegno, libertà, gentilezza… A volte si incrociano, a volte no. Se seguo l’impegno, come faccio a “staccare” quando voglio? Se abbraccio la gentilezza, per forza mi tocca rispondere appena arriva un messaggio. Ci dà uno spunto di riflessione Padre Paolo con un aneddoto francescano: occhio a seguire il “padrone sbagliato”. Sembra un indovinello. Ci penso su.
Concluso ogni step, dobbiamo confrontarci con una persona del gruppo. Parlare a turno e ascoltare, per nuclei di due, occhi negli occhi. Aiuto. Il primo match funziona in modo insperato. Lui è Alberto, abbiamo le stesse sneaker colorate, veniamo da mondi simili, ci capiamo. Al secondo step mi monta su qualcosa che si è sciolto, laggiù negli abissi della mia coscienza. Mi viene da piangere. Piango. Luciana mi cerca nella borsa un fazzoletto. Ho un po’ paura di continuare.
Il tempo non è più davvero nostro
Giorno 3, le competenze
Di nuovo in cerchio, stavolta sul prato. Le schitarrate e i giochi di parole di Pierluigi, ma soprattutto gli immancabili “vespritz” di fine giornata, hanno sveltito il disgelo. Oggi parliamo di “feudalesimo digitale”. Il tempo ormai non è più nostro. Velocità, complessità e iperconnessione, stanno erodendo via via le nostre energie, disattivando l’attenzione. Rendendoci incapaci di amministrare con equilibrio le priorità delle nostre giornate. Tutto sembra diventato impellente. Per non soccombere, deleghiamo ai device alcune delle nostre competenze. Pensiamo a Internet e Google Maps. Da quando ci sono, non è necessario fare alcuno sforzo per ricordare un nome o trovare un posto. Così, lentamente, le nostre doti mnemoniche e di orientamento si sono atrofizzate. Presto potremmo perdere anche la competenza della scrittura, dell’approfondimento, persino del contatto fisico. Già ora deleghiamo agli emoticon la comunicazione delle nostre emozioni. Mi piace, sei gentile, ok così.
Un intero glossario affettivo sintetizzato in una manciata di faccine. Se non si esercita un’abilità, il corpo e il cervello finiscono per dimenticarla. Uno scenario che mi inquieta.
Un libriccino con un sacchetto di tè è l’esercizio della giornata: sostare 5 minuti e leggere senza fretta. La pausa non è tempo sprecato. Me lo ripeto mentre immergo la bustina nell’acqua calda. Sono due giorni che non tocco il cell.
Un digital detox retreat per domandarsi “che cosa voglio davvero?”
Giorno 4, la consapevolezza
Ultimo giorno. Finito il pranzo si parte. Abbiamo scritto e gettato sul fuoco le cose di noi che vorremmo cambiare. Ci siamo dati un obiettivo. Uno. Che forse per molti, sicuramente per me, ne racchiude tanti. Ed ha la forma di un albero pieno di rami, che ho disegnato su una piccola tela bianca. Pensavo di fare un corso di disintossicazione digitale, invece è finita che ho fatto un’immersione negli antri bui del mio io profondo. Ho sfidato il mio giudice interiore. Ho imparato a riconoscere le “convinzioni limitanti” che mi portano a pensare che “non posso cambiare, perché sono fatta così”, “che non ho tempo per riposare”, “che se non rispondo subito ai messaggi passerò per maleducata e non professionale”. E poi ho stanato i miei bisogni primordiali. Cura, contatto, attenzione, spiritualità.
Che strane macchine siamo noi umani. Potenzialmente immensi eppure incapaci di volare. Metterci in ascolto, esprimere appieno la nostra fragile, potente, sublime complessità. Sento che il diapason è tornato a vibrare. Non solo il mio, ma tutti, all’unisono, mentre sul prato in cerchio ci diciamo all’orecchio, uno per uno, quello che abbiamo ricevuto dall’altro. Sarà difficile tornare “nel mondo”. Insieme siamo forti, da soli chissà. Ma intanto un seme è stato gettato. Se siamo bravi, germoglierà.
Il festival disconnesso
“Spegni tutto. Riaccendi ciò che conta”.
Il festival disconnesso“Spegni tutto. Riaccendi ciò che conta”. Un titolo che già scalda il cuore: è quello del Digital Detox Festival organizzato in media partnership con Donna Moderna dal 20 al 22 giugno a Sauris (UD). Nato grazie all’esperienza, passione e competenza di Alessio Carciofi, offre talk e incontri con oltre 40 ospiti tra filosofi, scienziati, monaci ed esperti di wellbeing; esperienze immersive con camminate rituali, laboratori e silenzi rigeneranti nella natura; serate unplugged con musica, parole e incontri autentici sotto le stelle. La cornice paesaggistica, un borgo delle Alpi carniche friulane, è incantevole. L’invito è trovare presenza e connessione. Il regalo per i partecipanti inestimabile: una pausa consapevole dove riprendere la vita vera, anche quella (2.400 ore all’anno) che ci lasciamo sottrarre dagli schermi (digitaldetoxfestival.it/). M.D.