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Aborto: 3 donne su 4 dicono sì

Secondo un sondaggio Swg, a quasi 50 anni di distanza dalla legge 194 3 donne su 4 sono favorevoli all'aborto. Oggi però il testo ha dei limiti e l'aborto farmacologico a domicilio rimane una chimera. Ecco perché

Poter accedere all’aborto oggi può essere ancora molto difficile. A 46 anni dall’entrata in vigore della legge 194 sulla interruzione volontaria della gravidanza e a 15 anni dalla introduzione della procedura farmacologica, la possibilità di accedervi «è ancora negata o incerta per molte donne». A denunciarlo è l’Associazione Luca Coscioni, che però spiega come oggi 3 donne su 4 siano favorevoli proprio all’aborto.

Le donne dicono “sì” all’aborto

Il 75% delle donne è favorevole all’interruzione volontaria di gravidanza. Significa 3 donne su 4. Per 9 su 10 (90%), però, la legge 194 è da migliorare. Lo indicano i risultati di un’indagine, condotta da SWG per l’Associazione Luca Coscioni, dalla quale emerge anche che poco più della metà del campione (55%) considera «importante garantire l’accesso alla IVG farmacologica, permettendo l’autosomministrazione del secondo farmaco, il misoprostolo, a domicilio, come avviene nel resto del mondo, evitando dunque il ricovero».

L’aborto farmacologico è limitato

«Per quanto riguarda l’autosomministrazione a domicilio del secondo farmaco il problema non è la legge 194», chiarisce però Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni. «L’articolo 15, infatti, affida “alle Regioni, d’intesa con le Università e gli Enti Ospedalieri” il compito di assicurare alle donne l’accesso alle “tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza” – spiega Gallo – La legge 194, quindi, ha previsto la possibilità di una evoluzione medica, come d’altra parte dovremmo fare rispetto a qualsiasi altro servizio medico». Perché quindi non darvi accesso?

Perché l’aborto si pratica solo in ospedale?

L’IVG farmacologica, infatti, consiste nella somministrazione di due farmaci: il mifepristone (la pillola RU486) e una prostaglandina (misoprostolo o gemeprost). Di fatto, però, l’aborto in Italia è in larga parte ancora limitato all’intervento ospedaliero. Ma l’avvocata e segretaria nazionale dell’Associazione Coscioni domanda: «Se abbiamo un farmaco dove prima c’era solo la possibilità di un intervento chirurgico, non dovremmo garantire la possibilità di scegliere una procedura meno invasiva (quindi a beneficio della salute della donna) e meno costosa?».

Troppe differenze su base regionale

Come spiega l’Associazione Coscioni, nonostante le indicazioni del Ministero della Salute prevedano il regime ambulatoriale, con autosomministrazione a domicilio del misoprostolo, l’aborto farmacologico in diverse Regioni è ancora effettuato in regime di day hospital o addirittura in regime di ricovero. Perché? «Non è facile rispondere. Probabilmente perché non c’è volontà politica. Applicare bene la 194 e le linee di indirizzo ministeriali del 2020 sembra una cosa ovvia, dovrebbe essere una cosa ovvia. Poi c’è sempre il solito problema di come abbiamo le informazioni, cioè i dati: per medie regionali. Questo ci impedisce di avere un’idea precisa di cosa succede nelle singole strutture e quindi ci impedisce anche di trovare rimedi in caso di mediocre applicazione o di disservizi», sottolinea Gallo.

Come funziona all’estero

Se in Italia è difficile capire la reale situazione e disporre di numeri certi, in molti Paesi europei la situazione è ben diversa. Per fare qualche esempio, «Nel 2021 in Francia il 76% delle IVG sono state farmacologiche, l’87% in Inghilterra e Galles, il 98,2% in Finlandia. Nel 2022 in Norvegia il 94,8% e in Svezia il 96%. In tutti questi Paesi la procedura farmacologica, almeno fino alla decima settimana di gravidanza, viene per lo più eseguita senza ricovero ospedaliero – spiega la segretaria dell’Associazione Coscioni – Dal 2005, inoltre, l’Organizzazione mondiale della Sanità ha incluso il mifepristone e il misoprostolo nella lista dei farmaci essenziali e nel 2019 li ha inseriti tra i core essential medications, cioè i “farmaci più efficaci, sicuri ed economici” per indicazioni cliniche prioritarie, che dunque dovrebbero essere disponibili nei sistemi sanitari in ogni momento».

Una legge troppo vecchia?

Tornando alla legge, a quasi 50 anni dalla sua introduzione, secondo l’Associazione Coscioni occorrerebbero alcune correzioni: «Si dovrebbe eliminare la settimana di attesa obbligatoria per chi vuole abortire (come stabilito dall’articolo 5: “Se non viene riscontrato il caso di urgenza, al termine dell’incontro il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia […] invita [la donna] a soprassedere per sette giorni”)», ricorda l’avvocata. Ma non solo: «Andrebbe aggiunto il rischio per la salute della donna dopo il primo trimestre (e non più solo il rischio della vita)».

Come considerare il feto

C’è poi il delicato discorso relativo al feto: secondo Gallo «si dovrebbe eliminare l’obbligo di “salvaguardare la vita del feto” (questo negli aborti tardivi e quando c’è un patologia fetale grave)». Infine c’è un problema burocratico-amministrativo, ma dalle ricadute pesanti su molte donne: «Andrebbe introdotto un nuovo indicatore tra i 22 che misurano i LEA, i Livelli essenziali minimi, quello cioè relativo alla percentuale di interruzioni di gravidanza con la procedura farmacologica in regime ambulatoriale rispetto al totale di IVG con procedura farmacologica», che invece al momento non è calcolato. Infine, «andrebbe cambiato il modo in cui abbiamo accesso ai dati. La Relazione ministeriale di attuazione è insoddisfacente, ha numeri vecchi, chiusi e aggregati per medie regionali. Come ho già detto, i dati in questo modo servono a poco», conclude Gallo.

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