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Che fine farà la lingua italiana?

Dall’uso, e spesso abuso, dell’inglese ai neologismi frutto dell’innovazione tecnologica, fino alle espressioni nate sui social. L’italiano è una lingua viva, si evolve per stare al passo con il mondo che cambia. Come un magnifico laboratorio in movimento

«Visto che siamo in smart working facciamo una videocall. Detto ciò, mi taccio». Frasi di uso comune come queste rivelano che ogni volta che parliamo entriamo in un laboratorio linguistico, dove possono coesistere elementi assai diversi: prestiti da idiomi stranieri (videocall), rielaborazioni più o meno fantasiose (essere in smart), arcaismi di dantesca memoria (Mi taccio). Di fronte a tanta effervescenza c’è da chiedersi dove stia andando l’italiano.

L’italiano è una lingua che cambia adattandosi ai nostri nuovi bisogni

«Una lingua viva come la nostra è in movimento, si modifica adattandosi alle circostanze e ai bisogni nuovi e ha un arsenale di strumenti morfologici e semantici per farlo. Per esempio, con i suffissi “–ista” e “-ismo” da parole già esistenti se ne sono create di nuove come sovranista e terrapiattismo. Pensiamo poi a espressioni come “essere sul pezzo”: il significato militare originario – il pezzo, era quello dell’artiglieria – si è esteso al mondo della fabbrica, e quello giornalistico» spiega Ugo Cardinale, celebre linguista e saggista, autore di Storie di parole nuove. Neologia e neologismi nell’Italia che cambia (il Mulino). «Teniamo anche conto che il neologizzare è un processo naturale che riguarda anche tutti noi a ogni età: il bambino neologizza per esprimersi e sopperire alle parole che gli mancano, gli adolescenti per affermare il proprio sé, gli adulti di fronte a un’invenzione o a un oggetto che prima non c’erano».

Secondo alcuni stiamo usando troppo l’inglese invece dell’italiano

C’è però un terreno a tratti incandescente: quello su cui si scontrano i puristi dell’italiano e coloro che usano con dovizia l’inglese (alcune di voi lettrici ci bacchettano proprio per questo!). «Viviamo in un’epoca di globalizzazione politica e finanziaria e la lingua non è estranea a questo processo» commenta Cardinale. «Spesso usiamo l’inglese anche in modo improprio perché non lo conosciamo bene. Per esempio, smart working è un’espressione frutto della notevole creatività degli italiani, ma il termine appropriato in inglese è remote working. D’altra, parte, quella che si sta diffondendo nel mondo non è la lingua di Sua Maestà ma un global English». Un inglese che presidia sempre più ambiti come l’economia, la moda, il lusso, e la cui diffusione si è ampliata con l’accelerarsi dell’innovazione tecno-digitale.

La rivoluzione tech “parla” inglese non italiano

«Intorno agli anni 2000 sono nati Google, Facebook, LinkedIn, e sono nati in America. In questi ambiti la comunità scientifica di riferimento parlava e parla inglese» spiega la linguista Laura Nacci, direttrice della formazione di SheTech e coautrice con Marta Pettolino Valfrè di Che palle ’sti stereotipi. 25 modi, di dire che ci hanno incasinato la vita (Fabbri editori). «Sono stati creati nuovi oggetti, pensiamo al tablet e al mouse, e nuove professioni, dal social media manager al digital marketing manager». Già, le nuove professioni… Chi prima era avvezzo a titoli come ragioniere, geometra e avvocato ora si trova a districarsi in una selva di manager, basta fare un giro su LinkedIn per accorgersene, e non è sempre immediato capire cosa questi professionisti maneggino.

«Alcune qualifiche non sono facilmente traducibili in italiano e l’inglese di solito è più sintetico. Per esempio, nel caso di backend developer dovrei usare una perifrasi tipo “programmatore che sviluppa elementi invisibili agli occhi degli utenti”» aggiunge Nacci. «A volte l’inglese ci toglie dall’imbarazzo legato a motivi socioculturali per cui fatichiamo a declinare al femminile alcune professioni, in particolare quelle legate proprio al tech e digital. La sigla IT specialist può definire sia l’ingegnere sia l’ingegnera» continua Nacci. «Al tempo stesso non è sempre necessario ricorrervi. Io, per esempio, sono education manager, ma il corrispettivo in italiano c’è, direttrice della formazione, ed è quello con cui mi presento».

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L’italiano ora si confronta con le lingue di chi arriva da altri Paesi

L’italiano non oscilla solo tra le sponde dell’Arno e la Silicon Valley, ma va incontro anche ad altri mondi. Avete mai sentito termini come dovertà, panduleria, olopsen ed egosione? Il loro significato è spiegato nel Controdizionario della lingua italiana. Case possibili per dispersi della parola (Baldini+Castoldi). Lo ha curato Graziano Gala, scrittore, collaboratore della Treccani e docente all’Istituto Marisa Bellisario di Inzago (Mi). «I ragazzi provengono da varie zone d’Italia e da altre Nazioni» dice Gala. «A me e ai miei colleghi dicevano: “Noi usiamo le parole che ci insegnate qui a scuola ma, appena, usciti, torniamo alle nostre lingue del cuore”. Questo mi ha colpito tantissimo perché io sono meridionale e con mia mamma, che ha la quinta elementare, tanti argomenti li tocco solo in dialetto perché mi permette di stabilire un’intimità linguistica con lei.

Ho pensato quindi che dovessimo fare la conoscenza delle parole di questi ragazzi e abbiamo chiesto loro di raccontarcele: alcune sono in lingue inventate, altre nelle loro lingue d’origine. Nell’ascoltarle abbiamo scoperto mondi. Per esempio, Tourondo, ci ha spiegato una studentessa del Senegal, indica la prassi di ricevere il proprio nome da quello di un avo. Io ho il corrispettivo di questo termine nel dialetto salentino, ma non in italiano. Abbiamo deciso di raccogliere queste parole in un libro perché la lingua diventi una nuova capanna dove tutti possano stare. L’italiano deve essere un punto d’arrivo, un porto sicuro. I ragazzi iniziano a dirmi: “Professore, stiamo facendo lo sforzo di raccontare a mamma e papà alcune parole italiane che ci piacciono tanto e vorremmo usare anche a casa”. Questa è una conquista: la lingua da ostacolo diventa un gancio».

Spesso politici e burocrazia usano un italiano poco chiaro

Ma non sempre usiamo l’italiano per fargli assolvere un compito di chiarezza e trasparenza. «Alcune volte i politici si inventano parole o ne riesumano altre in modo improprio solo per mettersi in vista e capita che persino le leggi vengano promulgate con espressioni che le persone non capiscono» dice Cardinale. E i social? «Ci stanno abituando a una comunicazione polarizzata sul sì e sul no, che non fa leva sulle motivazioni a sostegno delle varie posizioni: si perde così la forza della dialettica». Sugli stessi social tuttavia, a partire da Instagram, attraggono migliaia di follower vari account dedicati all’italiano: da quelli che ci evitano scivoloni nella dizione (come @alessandra.battaglia.voce) quelli che ci invitano a riscoprire vocaboli antichi dalla rinnovata vitalità (come @parole_desuete). Di scuse non ne abbiamo: l’italiano possiamo esplorarlo, migliorarlo e persino, almeno un po’, inventarlo.

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